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venerdì 26 dicembre 2008

Due mesi di vita a Chiang Mai.

Ero stato a Chiang Mai, nel nord della Tailandia, tra gennaio e febbraio 2008. La città viene raccomandata per la buona qualità di vita, le buone accommodations a prezzi ragionevoli, i buoni ospedali, le possibilità di trekking nella bella natura circostante (da visitare anche a dorso di elefante) e via elencando…

Volendo rimanere un periodo in Tailandia, per spezzare un soggiorno prolungato in India, non ho dubbi e scelgo Chiang Mai come luogo di permanenza. Rimango oltre due mesi, avendo modo di elaborare alcune riflessioni.
La qualità della vita si è confermata buona; la città, pur non essendo una metropoli, è senz’altro cosmopolita, offrendo l’opportunità di conoscere tanta, varia e talora pittoresca umanità.
Si possono trovare, è vero, accomodations piacevoli senza spendere cifre eccessive: intorno ai 100-150 euro per una camera mensile o, nel caso si rimanga più di tre mesi, per appartamentini un po’ fuori città, in genere ben ammobiliati e, nei casi più fortunati, con un piccolo spazio verde ed una piscina da condividere con i vicini.
Non mancano buoni ristoranti e non si contano quelli italiani, con proprietari spesso affabili e fidelizzatori.
Si possono fare del buono shopping (la Tailandia e’ famosa per i centri commerciali su quattro o cinque piani dove e’ possibile comperare dall’oro ai prodotti high tech, dal vestiario al cibo internazionale, dai souvenirs ai prodotti per la casa eccetera) ed ottime cure dentarie risparmiando cifre considerevoli rispetto all’Europa.
La città, come generalmente accade in Tailandia, pullula di massaggerie e non mancano buoni cinema e locali notturni.
È agevole ed economico assistere ad incontri di Muay Thai, l’arte marziale nazionale, con incontri a volte simulati, altre realmente appassionanti.
Insomma: vivere due mesi a Chiang Mai può essere interessante e costruttivo e dunque credo sia una prospettiva appetibile per molti travelers o “permanent tali”.
Ho trovato, tuttavia, anche aspetti meno apprezzabili e credo meriti segnalarli per smontare facili mitizzazioni.
La discreta efficienza dei servizi (non dimentichiamo che siamo sempre in Asia, di qui l’utilizzo dell’aggettivo, un po’ tiepido, discreta), il buon gusto di molti locali, possono rischiare difatti di divenire elementi scontati.
Il loro portato di piacere rischia dunque di annacquarsi ed anche svaporare rivelando la drammatica assenza di un nutrimento superiore.
Come ho scritto in altri articoli, la Tailandia non ha mai brillato per produzione culturale, non ha mai fatto grandi investimenti in questa direzione pur avendo una cultura abbastanza delineata, in massima parte buddista.
Il buddismo tailandese è il cosiddetto theravada, snobbato spesso, dai cugini del mahayana (“del grande veicolo”) come hinayana (“del piccolo veicolo”).
Vivendo un minimo in loco ho avuto modo di subodorare questa ipotizzata piccolezza. Nel buddismo theravada manca la figura del bodhisattva, di colui che rinuncia ad uscire dal samsara — il ciclo di nascite, morti e rinascite — e dalla sofferenza della vita per reincarnarsi ed aiutare altre persone ad avvicinarsi alla stessa opportunità.
Il buddista theravada, pur sensibile alla qualità della compassione, vive in funzione della propria salvezza individuale, nulla di più.

È anche vero che i monaci theravada rappresentano un modello di saggezza e virtù, con tutte le positive ricadute sociali del caso e difatti sono tenuti in grande considerazione nel paese ma, come dire, dopo un’esperienza di oltre due mesi la mia impressione è che qui manchi un elemento di scatto.
Culturalmente la Tailandia ha riciclato molto dall’India: la stessa religione buddista, l’epica nazionale — il Ramakien che riprende tutti i motivi del Ramayana indiano — ed i nomi dei re dell’ultima dinastia thai: Rama, come il virtuoso monarca di Ayodhya (nell’attuale Uttar Pradesh, nel nord dell’India), città che ha a sua volta ispirato il nome della tailandese Ayuthaya.
Ha anche preso molto dalla cultura cinese, dando il meglio di sé solo sul fronte del pragmatismo e del più genuino senso pratico.
Assuefatto alla buona qualità dei servizi, della buona musica nei locali, dei buoni ristoranti, è giunto il momento che ho sentito una pungente mancanza di un “oltre”. Su quest’ultimo punto ritengo invece che l’India, a fronte dei suoi immensi difetti che ho tentato di non mancare mai di stigmatizzare, resta insuperata: è un paese inesauribile ed inesauribile è la capacità che ha di stupire, emozionare come, del resto, di disgustare.
Vivere un periodo a Chiang Mai, oltre ad avermi dato alcune importanti opportunità sul piano materiale, mi ha fatto anche contattare una piccola/grande miseria esistenziale.
Questa si è profilata come una percezione fastidiosa di piattume, aridità che, con l’andare del tempo, avrebbe potuto acquisire alcune caratteristiche della noia baudelairiana.
Considerando quella che io definisco la mancanza o l’inadeguatezza di un nutrimento superiore, quali ne siano le cause è difficile dire; si può appena azzardare qualche ipotesi.
Per prenderla un po’ alla larga, ritengo che il fascino dei templi thai non regga il confronto con quello dei monasteri tibetani o alcuni luoghi di pellegrinaggio hindu dove è possibile cogliere la profonda, ineguagliabile devozione del popolo indiano.
Si potrebbe dire: sono tradizioni diverse e tuttavia credo che l’epiteto poco lusinghiero di “piccolo veicolo” abbia un suo perché.
La mente umana può essere facilmente assimilata ad un software ed i miti e le credenze hanno un ruolo particolarmente importante nel realizzarne la programmazione.
Prescindendo ora dal fatto che esistano o meno i bodhisattva, trovo che postularne l’esistenza sia culturalmente importante per dare alla gente il riferimento di un pur lontano “oltre”, di un modello attendibile di autentico altruismo.
Il discorso della montagna ed altri passi del Vangelo che molti poeti ed intellettuali hanno definito rivoluzionari, hanno alimentato nel mondo cristiano un’attenzione all’altro (che avrebbe anche assunto la forma di tante, variegate espressioni socialiste) che purtroppo io non ho ritrovato nella mia esperienza tailandese. Quello di cui ho maggiormente sentito la mancanza è la gratuità di emozioni e sentimenti (un nostro prete potrebbe invocare la “gratuità dell’amore cristiano” che, malgrado la controriforma e la Santa Inquisizione abbiano fatto probabilmente più vittime dei nazisti nel corso della Shoah, ha lasciato una pur debole traccia nel vituperato Occidente).
I thai mi sono sembrati davvero poveri di slancio (almeno da sobri, sotto i fumi dell’acool possono rivelare una buona affabilità), opachi, poco comunicativi (anche per ragioni di lingua, pochi conoscono sufficientemente bene l’inglese), mai disinteressati.
Piccoli come il loro veicolo, pragmatici, buoni affaristi con evidenti derive bottegaie, tendenzialmente incolti ed aridi pur non risparmiando su sorrisi e moine.
È forse la stessa aridità di fondo a contribuire a fare della Tailandia il più grande puttanaio del mondo che magnetizza quindici milioni di turisti ogni anno, la maggior parte dei quali, per loro stessa ammissione, soprattutto interessata a molto sesso a buon mercato. Mi preme chiarire subito che la cosa, non essendo un moralista, non solo non mi scandalizza ma vi individuo degli aspetti positivi — il sesso è una delle migliori medicine e vivere parte del mio tempo a Varanasi mi ha fatto toccare con mano gli effetti devastanti di una cultura ferocemente sessuofobica — ma non ho potuto non interrogarmi su alcune cause ed alcuni effetti.
Le massaggerie sono piene di ragazze madri, vedove, divorziate con figli a carico. Una donna senza un uomo vicino e senza un lavoro qualificato fa una gran fatica ad arrivare alla fine del mese e dunque offrire un hand job (servizio di mano) in una massaggeria o qualcosa di più per qualche centinaio di bath può essere l’unica alternative praticabile. Questo nella totale assenza di uno stato minimamente sensibile alle problematiche delle donne sole. Al contrario, i cui contabili potrebbero essere ben contenti di vedere crescere i dividendi per i soldi carpiti ad occidentali soli, spesso anziani, talora obesi, non di rado ubriaconi.

Ben più squallido è il fenomeno dei go-go-bars, dove si viene letteralmente trascinati dentro da ragazzotte con minigonne vertiginose, dove si viene sollecitati a bere, ad ingoiare, mentre altre ragazzotte sculettano su un palco, avvinghiate ad un palo evidentemente fallico. Fino al momento di prenderne una in prestito per un’ora o una notte, pagando dazio al bar e portandola in uno dei tanti alberghi “convenzionati” delle piccole e delle grandi città. In questo contesto, è facile che intervenga una sorta di febbre ed una ragazza a notte non sia più sufficiente ed i dividendi dell’industria turistica continuino ad aumentare nell’imperversare di un’incultura disgustosa, di bibitine e bibitoni e fast food, della mortificazione della sensualità autentica — che cede spazio alla provocazione becera —, della ripetizione ossessiva e belante del termine bath e di richieste, all’alito alcoolico, sempre più esose.
Forse sarebbe il momento di riconsiderare, a livello culturale ed umano più che religioso, la dimensione del veicolo in questo bel paese (bello e, a suo modo, un po’ folle, per fortuna) senza nulla togliere al mare cristallino, alle buone opportunità di shopping, all’alta qualità delle cure dentarie, al pragmatismo ed al genuino senso pratico che, nella giusta dose, continuo a considerare “un’espressione di intelligenza verace”.

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