TRANSUMANZA

QUESTO BLOG E' IN VIA DI SUPERAMENTO. NE STIAMO TRASFERENDO I POST MIGLIORI SUL SITO DI VIVEREALTRIMENTI, DOVE SEGUIRANNO GLI AGGIORNAMENTI E DOVE TROVATE ANCHE IL CATALOGO DELLA NOSTRA EDITRICE. BUONA NAVIGAZIONE!

lunedì 30 novembre 2009

La Fellowship of Friends: una comunità per la "Quarta Via".

Sono bene felice, in apertura di settimana, di ospitare un contributo dell'amico
Ivan Osokin su una curiosa esperienza comunitaria californiana.
Ivan:


Se pensate che nella vita di un aristocratico europeo dei secoli scorsi vi fosse qualcosa di spirituale; che l’eleganza dei modi, la compostezza della posa, l’urbanità nel parlare predispongano l’uomo a gioie ultraterrene; che la contemplazione e l’ascolto dell’arte classica inducano stati alterati di coscienza: allora la comunità “Fellowship of Friends”, ad Apollo in California, fa per voi. Qui vivono circa 500 persone, provenienti da ogni parte del mondo, che seguono gli insegnamenti di Robert Earl Burton, un americano dell’Arkansas che si rifà (con qualche variante) alla “Quarta Via”, ovvero a quel complesso di teorie e pratiche spirituali portati in Occidente da George Gurdjieff all’inizio del ventesimo secolo, e divulgate dal suo discepolo russo Peter Ouspensky. Il cuore della “Quarta Via”, così come Burton l’ha interpretata, è nell’espressione di Gurdjieff: “Ricorda te stesso sempre e ovunque”. Dunque gli abitanti di Apollo (ma vi sono altri mille studenti di Burton sparsi per il mondo) cercano, in tutte le loro attività, di “dividere l’attenzione”: ovvero ricordare se stessi e allo stesso tempo attendere alle occupazioni del momento.
Secondo il maestro fondatore, ciò diventa più facile usando intenzionalità, cura e grazia in tutto ciò che si fa, ovvero restando “presenti” (un’espressione chiave ad Apollo). Niente, quindi, meditazioni a occhi chiusi, danze sacre, riti religiosi di qualsiasi tipo: ad Apollo “religione” vuol dire fare le cose di tutti i giorni, ma “con l’attenzione divisa”. Anzi: il proprio lavoro interiore deve essere sempre invisibile, altrimenti può sconfinare nella vanità.
Le uniche danze che si tengono ad Apollo arrivano dalla Russia, nientepodimeno che dal Teatro Bolshoi, uno dei più rinomati al mondo in fatto di balletto. Grazie ai suoi contatti, Robert Burton riesce tutti gli anni a far venire qualcuno dei ballerini del Bolshoi ad Apollo, e così i suoi studenti possono “produrre presenza” contemplando raffinate esibizioni in cui il massimo sforzo si coniuga alla massima leggerezza. E se proprio si vogliono trovare cerimonie religiose ad Apollo (a parte i balletti)… Beh, queste si chiamano: colazione, pranzo, tè e cena “con Robert”. In sale che paiono ispirate alla reggia di Versailles (ma la casa dicono si chiami “Galleria” in omaggio alla Galleria Borghese di Roma), si degustano prelibatezze e vini squisiti, quasi sempre senza riuscire a finirli, perché inflessibili maggiordomi in smoking, a un segno del maestro, portano via i piatti quando sei ancora a metà. Né le stranezze terminano qui: il primo boccone si lascia da parte, quando si mastica non bisogna fare altro, vanno usate sempre due posate impugnate “all’inglese”, il tovagliolo si ripiega con cura… Tutto per tenere sotto controllo “il sé inferiore”, direbbe Burton, che al momento di mangiare diventa particolarmente attivo.
Va da sé che un posto simile ha il suo prezzo. Se la bellezza e le più fini tra le impressioni costituiscono un ponte verso il divino, il pedaggio è elevato: nella Galleria ci sono arazzi Gobelins, mensole barocche napoletane, orologi Luigi XV, tele del Seicento italiano e molte altre cose non proprio economiche (chi vive e lavora ad Apollo, però, può godere di vari benefici economici, oltre che di un piccolo salario). Ma “la quarta via”, ti direbbe uno studente, “è per il buon padre di famiglia”: ovvero una persona con la testa sulle spalle, non “vagabonda”, ma capace tutte le sere di portare a casa un bel gruzzolo.
C’è chi ci crede, e c’è chi invece va su tutte le furie e accusa Burton e i suoi studenti di innumerevoli nefandezze, le stesse che si dicono, da che mondo è mondo, contro tutte le minoranze religiose un po’ strane: lavaggio del cervello, sfruttamento, ciarlataneria, etc. Ma Burton e i suoi non rispondono a nessuna critica, anzi fanno spallucce. Perché? Perché “il risveglio ha bisogno della forza contraria” e l’atteggiamento giusto di fronte a quest’ultima non è rispondere, bensì “trasformare”. In uno stato di presenza senza parole, of course.

venerdì 27 novembre 2009

Di nuovo su "Il Popolo degli Elfi".

Sono molto contento di poter nuovamente ospitare un intervento della sociologa Cristina Salvadori sul Popolo degli Elfi. Cristina ha già curato, per Viverealtrimenti, una presentazione storica di questa radicale esperienza comunitaria italiana. In questo post ne dà una lettura più generale, interpretativa oltre che descrittiva. Ulteriori elementi sul Popolo degli Elfi vengono offerti nel sito viverealtrimenti.com.
Cristina:


Il mondo contemporaneo sta marciando ad un passo sempre più globale, diffondendo strutture uniche che tendono a presentare il modello prevalente di vita come esclusivo. All’interno di questo mondo diffuso si possono scorgere però spazi locali che propongono soluzioni di vita diverse, costruite su particolari esigenze e concezioni. Ospiti nel ventre di una realtà ormai dominante, queste piccole società offrono percorsi esistenziali alternativi che hanno trovato la loro autorealizzazione in odierne comunità ed ecovillaggi, facendo germogliare microcosmi di vita differenti nell’orientamento economico, politico, sociale, culturale e spirituale, dando così alla luce un’opportunità di vivere attraverso altri modi e di approcciarsi alla quotidiana routine mediante schemi diversi.
Il Popolo degli Elfi, comune situata all’interno dei boschi dell’Appennino Pistoiese dal 1980, rappresenta uno di questi spazi locali, proponendoci una solida alternativa di vita sociale con trent’anni di esperienza da raccontare. La comunità è infatti una vera e propria microsocietà composta da circa duecento persone distribuite tra case e villaggi immersi nel verde delle montagne toscane, animata giornalmente da ritmi di vita che volgono il loro sguardo soprattutto al passato contadino che abitava quei luoghi prima del boom economico di metà Novecento.
Il sistema economico elfico tende all’autosufficienza mediante l’impegno nel settore primario: gran parte delle attività quotidiane della comune sono dedicate alla coltivazione dei prodotti della terra, lavorata con metodi poco invasivi e attenti alle esigenze naturali. Semplici attività commerciali come la pizzeria ambulante o la vendita dei prodotti confezionati in valle vanno ad alimentare una cassa comune, necessaria all’acquisto di beni che non possono essere prodotti all’interno dell’area comunitaria. Ogni membro può inoltre detenere una somma personale di denaro per soddisfare i propri bisogni.
La struttura politica è assente per il rifiuto di qualsiasi forma di potere e gerarchia: il non governo elfico dà vita ad una democrazia diretta nella quale non esistono cariche politiche o leader ed ognuno può esprimere la propria opinione e far sentire la propria voce all’interno del “cerchio della parola”, regolatore dell’ordine e portavoce delle decisioni finali che emergono con la maggioranza legata al prevale di una particolare idea.
La composizione socio-culturale della comunità è variopinta: possiamo identificarla come anarchica, antagonista, hippy, pacifista, new age, contadina, rurale, ambientalista, poiché attraverso piccole sfumature riesce ad emanare tutte queste cose, anche se la tonalità più forte è rappresentata dal richiamo ad una realtà societaria agreste e rivolta al passato.
La sola descrizione dei caratteri generali rischia di far percepire la comunità in termini di perfezione. La capacità di sopravvivenza della comune in realtà non ha niente di straordinario: essa ritrae la concreta realizzazione di una diversa opportunità, resa possibile dalla volontà umana disposta a cercare valide alternative di vita, ma anche attraverso la costruzione di qualche accorgimento e riadattamento necessario nonché funzionale alla positiva realizzazione di questa microsocietà e alla sua permanenza nel tempo. Scendendo nei dettagli vediamo infatti che, oltre alla ricerca di una vita ecologica, solidale, a misura d’uomo, la struttura comunitaria si regge su alcuni muri portanti che ne permettono in sostanza la longevità e il reale funzionamento.
Gli Elfi rifiutano ogni tipo di gerarchia e di potere e basano la loro convivenza su un’anarchia ordinata fatta di parità, libertà di pensiero e uguaglianza tra le voci. Se la parola anarchia rimanda etimologicamente ad una mancanza di struttura governativa legandosi automaticamente nella nostra vita ad immagini di caos e disordine, essa diventa negli Elfi un congegno funzionante che smentisce la concezione comune.
La società elfica non è affatto dotata di una naturale forza interna che mantiene ogni elemento al suo posto creando un ordine congenito, ma i suoi membri sottoscrivono un patto di tacita accettazione di fondamentali regole implicite necessarie alla quotidiana convivenza che rappresentano la vera realizzazione di questi due concetti apparentemente inconciliabili. In poche parole, l’anarchia ordinata non è innata alla comune ma deve essere costruita ponendo in essere gli strumenti necessari alla sua concreta realizzazione. La sottoscrizione silente al rispetto di regole tacite e implicite costituisce uno dei presupposti alla creazione dell’armonia anarchica: entrare a far parte di una comunità costruita su valori di solidarietà, cooperazione, tolleranza e rispetto reciproco presuppone l’accettazione obbligata nonché la loro messa in pratica, ponendo così un primo tassello alla sostanziale anarchia. Un’altra importante pietra è costituita dalla necessaria affermazione di qualche membro che avviene non in termini di potere ma di autorità. E’ un presupposto naturale quello che fa prevalere la voce di qualcuno rispetto agli altri in merito a particolari esperienze o a diversi livelli di maturità, conoscenza e saggezza riguardo certi argomenti. La voce che risalta deve essere ascoltata perché è quella che può condurre alla giusta decisione da prendere.
Ecco allora come l’anarchia ordinata degli Elfi sia in realtà una costruzione sociale che nell’ambito della realtà comunitaria può essere definita funzionante.
Un’altra considerazione da fare in merito al successo e alla longevità di questa realtà riguarda la rivisitazione della realtà contadina di inizio secolo. La tradizione rurale narrata nei ricordi dei nostri nonni può essere rivissuta tramite gli Elfi, ma con modifiche pratico-teoriche. La ripresa del passato contadino è uno dei fattori che permette ai comunardi di ricreare uno status alternativo: attraverso questo stile di vita avviene un richiamo ai valori autentici della solidarietà, della collaborazione e della semplicità, si ha la possibilità di fare appello alla saggezza e alla sapienza, riemerge la corporeità del vivere, si instaura quel legame e quel rispetto profondo per la natura, ormai perduto. Il loro stile di vita è per questo estremamente frugale e ben lontano dai moderni comfort. Il differenziale con i loro ispiratori sta però in un fattore da non sottovalutare, importante anche per capire la longevità e la stabilità della comunità: i membri si sono trasformati in Elfi per una scelta volontaria, non per forzate condizioni di nascita. La rinuncia alle comodità, l’allontanamento dal mondo di provenienza e la scelta di un ritorno al passato fanno parte di strade soggettive che si incrociano tutte nell’area della comune, ma nessuna è partita da una condizione obbligata. Il passato dei nostri nonni narrato con nostalgia ma anche con punte di dolore legate all’oppressione padronale, alla fatica, alla fame e alla miseria, è rivissuto nel presente da questa comune attraverso delle correzioni sia pratiche che concettuali che permettono loro di mantenere l’equilibrio di questo fabbricato sociale.
Tutte queste considerazioni ci aiutano a capire la trentennale esperienza elfica, la sua capacità di sopravvivere ad un concetto visto spesso come il massimo dell’utopia, anche a causa dei fallimenti comunitari presentati dalla nostra storia. Gli ideali di comunione e solidarietà sono pietre miliari presenti anche tra gli Elfi, come continuazione di quel filo rosso che lega gran parte degli esperimenti societari a partire dalle comuni religiose ottocentesche, ma vediamo anche che essi devono essere accompagnati da risvolti pratici e umani, che nella concretezza del vivere permettono il sopravvivere di un’alternativa reale.
In un discorso più ampio possiamo anche tentare di creare un approccio produttivo alla diversità, proprio a partire dall’esempio elfico. A pochi passi da casa nostra si trovano realtà che hanno rovesciato la quotidianità, che vivono partendo da presupposti esistenziali estremamente diversi e che stanno lì pronte a dimostrare come siano possibili altri modi di vivere la vita all’interno della nostra collettività. Ma un buon confronto lo si fa solo se andiamo oltre il fascino che queste realtà possono emanare. La diversità produce tanta ricchezza quanto attrito: l’occhio che riesce a guardare con fare sincero la differenza è quello che non si pone né come idealista né come nemico poiché queste due tendenze opposte tendono paradossalmente a divenire uguali tra loro per la posizione estrema che entrambe assumono.
Valutare senza pregiudizi una realtà come quella degli Elfi significa elencare gli ingranaggi che la fanno muovere, spiegarne il funzionamento e, sulla base delle proprie idee ed esperienze di vita, creare una propria visione concettuale. L’esistenza di una comunità come quella elfica non deve limitarsi ad indicare soltanto la strada dell’accettazione o quella del rifiuto, ma deve gettare le fondamenta per ulteriori vie intermedie che portino ad un confronto produttivo su questi mondi purtroppo ancora poco conosciuti.

Chi volesse contattare Cristina puo' avvalersi del suo indirizzo e-mail salvadoricristina@hotmail.com

martedì 24 novembre 2009

Sri Lanka: brevi note di viaggio, parte seconda (Sarvodaya).

Sono giunto a Colombo l'11 di ottobre per ottenere un nuovo visto e ritornare in India. In virtù della complessità del visto richiesto e delle lungaggini dell'ambasciata indiana, ho deciso di rimanere più del tempo programmato (un paio di settimane). Siamo oramai sul calare di novembre e sono ancora qui. Ho iniziato difatti collaborare con Sarvodaya, cui ho già accennato alcuni post addietro.
Sarvodaya, una delle realtà più importanti del GEN (Global Ecovillage Network), è un'organizzazione di base che coinvolge oltre 15000 villaggi srilankesi. Promuove il microcredito e garantisce gli elementi basici di una vita decente a tutti i suoi membri. Non è esente da limiti ma trovo sia una realtà molto interessante, il cui esempio può essere seguito, con opportuni adattamenti, anche in paesi più sviluppati. Non mancherò di tornare su Sarvodaya e di parlarne in modo più approfondito. Ora preferisco raccontare qualche mia esperienza in questa terra e nel network comunitario citato.

Gampaha

È distante appena 45 minuti da Colombo. Un tempo da trascorrere, spesso in piedi, su di un treno che ricorda facilmente le nostre linee metropolitane. Con la differenza che anche in questo caso, come ho già scritto per i treni indiani e gli autobus di Colombo, corre con i portelli aperti. Corre lungo paesaggi riccoverdi in cui risaie o fiumi placidamente animati spezzano l’intensità lussureggiante dei coccheti e dei banani e di chissà quali altre specie vegetali. Corre e si ferma in stazioni secondarie, preservate dal freddo anonimato delle nostre stazioncine europee, colorate, sobriamente vitali. Sul treno è un moderato via vai di venditori di modeste cianfrusaglie, di poveri sacchetti di noccioline. Non manca qualche mendicante o qualche istrione che si cimenta in capriole un po’ spericolate nel vagone o in prove di forza alzando con i piedi ― a testa in giù nell’asana yogica della candela — un pesante macigno. Il tutto, per una manciata di rupie spiegazzate.
Gampaha è una cittadina come tante nel turgore della foresta srilankese. Con i suoi templi buddisti e le sue chiese, i suoi mercati, i daba “moscheolenti”, i suoi tuk tuk, i vestiti sobri e pudichi delle donne, le loro lunghe capigliature nere, qualche cane malandato, qualche insegna di compagnia telefonica, poca ressa, poche smanie, poco clamore. Il distretto di Sarvodaya rimane un po’ fuori città. È costituito da un paio di edifici a piano unico su un francobollo di terreno preso in prestito alla foresta.

Un terreno con un vecchio pozzo, un paio di tettoie per poche bufale e qualche vitello, dove si aggirano visibili, nel verde, un grosso gallo bianco e più discrete galline. Nel distretto vive Nimal-Aya con la famiglia, con la moglie e due figli maschi, di 7 e 14 anni. Persone semplici, in simbiosi con il loro ambiente naturale. Il francobollo di terreno da loro l’indispensabile per vivere: le banana (da mangiare crude o cotte), i jack fruits (da mangiare crudi o cotti), il latte delle bufale, le noci di cocco, ingrediente fondamentale delle ricette srilankesi. Non manca difatti, nella cucina di Manel-Akha, moglie di Nimal-Aya, un utensile primitivo, a manovella, per raschiare scagliette di cocco dall’interno delle noci aperte. Le scagliette vengono mescolate con dell’acqua che ne acquisisce il sapore. Questa, mischiata con altra acqua spremuta dall’impasto delle scagliette, viene usata nella cottura di quasi ogni pietanza ragion per cui, in Sri Lanka, è possibile ravvisare il peculiare sapore di cocco quasi in ogni piatto. Le galline danno, naturalmente, le uova fresche ma non la carne, data l’etica tradizionalmente vegetariana di Sarvodaya. Eccezioni saltuarie vengono invece fatte per piccoli pesci che Nimal-Aya e Manel-Akha allevano in pochi metri di stagno.

La cucina è disarmantemente semplice, mi ha ricordato subito quelle che ho visto in zone particolarmente primitive in India ed in Nepal. Lo spazio in cui vengono cotti i cibi è una semplice struttura in terra cruda con 4 nicchie dove possono essere messi a bruciare piccoli pezzi di legna. Sui bordi della struttura, all’altezza delle nicchie, possono essere poggiate pentole o padelle in lega, annerite dalla fuliggine, a 20-40 centimetri dal crepitare della legna. È il tipo di cucina “più amata” dai ceti contadini srilankesi, dagli adivasi del Kerala, da montanari nepalesi e chissà da quanti altri spezzoni, dimenticati, di popoli. Manel-Akha ha uno sguardo estatico, gioioso, pur nell’ambito di una vita che non riesce a non trovare un po’ monotona. Vive nel francobollo di terreno, buona parte del tempo dietro la struttura in terra cruda, cucinando per il marito ― militante impegnato di Sarvodaya e piccolo allevatore — e per i figli Damidu e Ganidu. Vive, tuttavia, una vita fitta di relazioni, con la casa spesso occupata da militanti del movimento o di parenti o amici di passaggio. Il network di Sarvodaya, del resto, è sempre presente nella vita dei suoi membri. La domenica è quasi sempre giorno di ritrovo a casa di qualcuno, nella costellazione di vicini villaggi. Non mancano legami abbastanza stretti con monasteri di buddismo theravada ragion per cui, nel corso degli incontri domenicali, i monaci hanno modo, la mattina, di trasmettere la loro saggezza ai laici, come da antica tradizione ed essere rifocillati, serviti e riveriti. Mi è sembrato di percepire che la presenza dei monaci (in genere in numero di 10-15) porti un ineffabile equilibrio negli ambienti, con le loro parole pacate, veicolate a mo’ di predica, cui fanno spesso seguito recitazioni di mantra. Dar da mangiare ai monaci è, potenzialmente, dovere di ogni laico presente. Loro siedono, uno vicino all’altro, in fila orizzontale, avvolti nei loro abiti arancione, zafferano o amaranto. Ciascuno ha, davanti a sé, la propria ciotola capiente. Il cibo abbonda sulle tavole della casa ospite di turno. Ciascuno ha portato qualcosa da casa propria, in un bello spirito di condivisione (lo stesso che ho ritrovato, ultimamente, nel corso di un’agape fraterna della Società Teosofica in Italia). I laici prendono, ciascuno, un piatto dal ricco desco della casa ospite e, sfilando davanti ai monaci, servono un po’ di pietanza nella ciotola di ciascuno. Il monaco può accettare o rifiutare con un semplice gesto della mano. Nel momento in cui copre la ciotola con il palmo aperto significa, naturalmente, che non ha intenzione di essere servito. Dopo pranzo viene offerta loro la radice di betel nella foglia di pan utilizzata, tradizionalmente, anche qui come in India (in cui credo si possa facilmente dire che se ne abusi) ed in Birmania.
A questo punto è giunto, per i monaci, il momento di ritirarsi ed il desco resta ad integrale disposizione dei laici. Personalmente ho avuto modo di godere di diversi omaggi e trattamenti di favore qui in Sri Lanka. Ad esempio, nel corso di questi incontri, mi è stato chiesto di servirmi per primo. Ho avuto dunque modo di scegliere con cura nella vasta offerta di pietanze. Ce ne era davvero per tutti i gusti, per carnivori e vegetariani. Tutto, anche il pollo, all’inconfondibile sapore di cocco. Ottimi, poi, i dolci. Meritano menzione il tipico wattalappam, una sorta di cream caramel arricchito con frutta secca (uva sultanina, frammenti di anacardi e di arachidi) e dell’ottimo gelato alla vaniglia fatto in casa.
Il tutto senza una goccia di alcool, bevendo semplicemente acqua.
Nimal-Aya e Manel-Akha vivono con gli introiti del latte di bufala ed affittando qualche stanza nel distretto di Sarvodaya.
La loro è una grande casa, pur poco ammobiliata, con bella veranda con vista su di un giovane coccheto, perfetta per leggere, scrivere e fumare i discreti sigari locali.
Va anche bene, per me e Damidu, il più piccolo dei due fratelli, per giocare con l’arco e le frecce con punte a ventosa. Ricordo che era uno dei miei giochi preferiti quando ero bambino e sono ben contento, ora, di riviverlo con un amico srilankese di 31 anni più giovane.
Giochiamo anche a badminton, nel francobollo di terreno e a cricket. Gampaha è dunque, per me, in questo mio soggiorno srilankese, il posto ideale per riprendere fiato dal fisiologico caos di Moratuwa (dove ha sede il quartier generale di Sarvodaya e dove dunque passo la maggior parte del mio tempo) e di Colombo. Il sabato prendo, regolarmente, magari al volo, il treno-metropolitana con i portelli aperti. Raggiungo questa piccola oasi di semplicità ed innocenza, questa famiglia di “elfi esotici” e, automaticamente, seguendo la tradizione di Sarvodaya, divento Manu-Aya (fratello Manu; il nome abbreviato che uso in Asia perché si presta meglio ad essere ricordato) o Manu-Malli (fratello più giovane Manu) come mi chiama Manel-Akha (sorella Manel). A Gampaha ho dunque ritrovato un posto dove nutrire la fiducia nell’essere umano, dove ci si possa davvero permettere di sentirsi come in famiglia, in un rapporto di fratellanza che possa diventare via via più autentico, meno sproloquiato ed affatto retorico.

martedì 17 novembre 2009

Luna nuova --- Martedì 17 novembre 09 --- da Ajahn Munindo

Come il bambù distrugge se stesso
nel dare frutto
a se stessi fanno male gli stolti
prestando fede a false opinioni
e deridendo i saggi
che vivono in accordo con la Via.

Dhammapada strofa 164

Pensare che tutte le cose naturali siano leggiadre è un’idea
romantica. La natura può essere crudele e micidiale. La natura delle
nostre passioni non domate può farci aggrappare a pensieri e
sensazioni che non fanno che precipitarci in maggiore sofferenza. Le
nostre menti non addestrate ci fanno mancare il potenziale per la
libertà che potrebbe essere nostro se facessimo lo sforzo di coltivare
la retta presenza mentale. Questo testo ci incoraggia a una
consapevolezza a tutto tondo: sedendo, stando in piedi,
camminando, da sdraiati, una presenza mentale 24 ore su 24.
Una mente preparata a fondo per una vita di consapevolezza è
costantemente vigile verso la tendenza ad attaccarci alle opinioni e al rischio di essere posseduti dall’auto-importanza.
Finché non siamo totalmente liberi dall’ignoranza, i semi dell’illusione restano dentro di noi con la loro possibilità di fare danno, a noi e agli altri.
Una mente ben addestrata vede dove sta la virtù anche quando
le nostre opinioni più care vengono contraddette e le preferenze personali frustrate.

Con Metta,

Ajahn Munindo

(Ringraziamenti a Chandra per la traduzione)

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Santacittarama
Monastero Buddhista
02030 Frasso Sabino (RI) Italy

Tel: (+39) 0765 872 186 (7:30-10:30, tutti i giorni eccetto lunedì)
Fax: (+39) 06 233 238 629

sangha@santacittarama.org
(alternativa): santa_news@libero.it

www.santacittarama.org
www.forestsangha.org (portal to wider community of monasteries)
www.fsnewsletter (newsletter in English)
www.dhammatalks.org.uk (audio files)
www.allisburning.org (images of Theravada Buddhism, East and West)

sabato 14 novembre 2009

Lo scandalo della fame.

Mi sembra giusto condividere con i lettori di viverealtrimenti la mail che ho ricevuto da Luis Morago di Avaaz.org (presentata piu' in basso), dando il mio piccolo contributo divulgativo

Cari Amici,
1 persona su 6 nel mondo soffre la fame ogni giorno. Con la recente crisi finanziaria, la povertà è alle stelle, ma i nostri governi non riescono a porre in atto azioni significative.
Tra pochi giorni, i leader mondiali si incontreranno a Roma per il Vertice Mondiale sulla Sicurezza Alimentare per affrontare questa crisi che aumenta. E’ più che mai urgente un finanziamento per promuovere l'agricoltura sostenibile nei paesi più poveri, ma Francia, Germania, Regno Unito, Italia e Giappone non stanno mantenendo la promessa di stanziare 20 miliardi dollari effettuata in luglio.
Milioni di vite sono oggi a repentaglio. Firma la petizione che verrà consegnata direttamente ai leader mondiali e attraverso una mobilitazione che si terrà sotto il Colosseo di Roma alla vigilia del vertice:

http://www.avaaz.org/it/world_hunger_pledges

Il mondo produce abbastanza cibo per sfamare tutti. Eppure il numero di persone che soffrono di fame cronica in tutto il pianeta ha raggiunto la cifra record di 1 miliardo quest'anno.
Centinaia di miliardi vengono spesi dai governi ricchi per salvare banche e istituzioni finanziarie, ma i paesi del G8 stanno cercando di tagliare i nuovi stanziamenti per l’agricoltura e la sicurezza alimentare dei paesi più poveri, promessi lo scorso luglio, da 20 miliardi dollari a soli 3 miliardi, mettendo letteralmente a rischio la vita di milioni di persone. Questo è uno scandalo.
Il vertice di Roma è la nostra migliore opportunità per spingere i governi a promuovere la produzione alimentare su piccola scala perché è sempre più dimostrato che i modelli di agricoltura e allevamento intensivi non sono efficaci per contrastare la fame e hanno effetti estremamente dannosi per l'ambiente.
Collaboriamo con ActionAid, organizzazione internazionale che combatte contro la povertà, e le reti globali di agricoltori di tutto il mondo per mostrare ai nostri governi che ci rifiutiamo di accettare un mondo dove ogni minuto le persone muoiono di fame. Firma la petizione, alla vigilia del Vertice, sotto al Colosseo di Roma, un evento straordinario consegnerà le firme:

http://www.avaaz.org/it/world_hunger_pledges

La crisi economica e il cambiamento climatico stanno colpendo i più poveri, spingendo milioni di persone sotto la soglia di povertà estrema. E in momenti come questo che dobbiamo essere uniti e dimostrare che ci prendiamo cura di coloro i cui i diritti fondamentali sono negati. Firma la petizione qui sotto:

http://www.avaaz.org/it/world_hunger_pledges


Con speranza,

Luis, Alice, Benjamin, Graziela, Ricken, Pascal, Iain, Paula, Paul, Veronique e l’intero team Avaaz


Informazioni

Rischio di nuova crisi alimentare:
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/mondo/2009/11/11/visualizza_new.html_1616624296.html

Allarme di Oxfam e Ucodep, vertice di Roma a rischio fallimento:
http://beta.vita.it/news/view/97629

Maggiori informazioni su ActionAid e la campagna globale HungerFREE:
http://www.hungerfree.it/

60 leader mondiali al vertice di Roma:
http://it.reuters.com/article/topNews/idITMIE5AA0IU20091111

Rapporto della Fao sul successo di alcuni paesi nel ridurre la fame:
http://www.diariodelweb.it/Articolo/?d=20091111&id=112422

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CHI SIAMO
Avaaz.org è un'organizzazione non-profit e indipendente, che lavora con campagne di sensibilizzazione in modo che le opinioni e i valori dei popoli del mondo abbiano un impatto sulle decisioni globali. (Avaaz significa "voce" in molte lingue.) Avaaz non riceve fondi da governi o aziende ed è composta da un team internazionale di persone sparse tra Londra, Rio de Janeiro, New York, Parigi, Washington e Ginevra. +1 888 922 8229

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Non dimenticare di andare a vedere le nostre pagine: Facebook, Myspace e Bebo.

venerdì 13 novembre 2009

Un sindaco damanhuriano.

Elfo Frassino, presidente del CONACREIS, è stato eletto sindaco di Vidracco, comune in provincia di Torino in cui ha sede la Segreteria organizzativa della Federazione Associazioni Damanhur, oltre alla stessa Segreteria del CONACREIS.
Credo meriti menzionare subito che Vidracco è stato uno tra i primi Comuni italiani a prendere posizione contro l’utilizzo degli organismi geneticamente modificati all'interno del territorio, con deliberazione del Consiglio Comunale. Era il 1999.
I damanhuriani si sono presentati alle elezioni locali, nel giugno di quest’anno, con la lista Con te per il paese nell’ambito della quale sono stati eletti, oltre al sindaco, 19 consiglieri — distribuiti tra il comune di Vidracco ed i limitrofi Issiglio e Lunacco ― che si aggiungono ai due già presenti a Vistrorio.


Tra i progetti più innovativi in programma per il quinquiennio 2009-2014, l’Amministrazione di Vidracco sta procedendo con la costruzione di una centrale a biomassa per la produzione di gasolio di origine vegetale, grazie al quale soddisfare il fabbisogno energetico e termico dell’intero paese.
La centrale entrerà in funzione nell’anno 2010 e permetterà di creare anche nuovi posti di lavoro.
Con questo progetto l’Amministrazione ha l’obiettivo di rendere Vidracco un Comune autosufficiente dal punto di vista energetico, consentendo alle famiglie un importante risparmio economico sulle bollette dell’energia elettrica.
A gestire operativamene il progetto è la “Vidracco Energia”, una s.r.l. creata appositamente dall’Amministrazione comunale, della quale il Comune è l’unico azionista socio, con l’obiettivo di trasformarla nel tempo in una Società per Azioni, della quale potranno far parte i cittadini, le attività lavorative e le associazioni del territorio comunale.
Quest’ultime sono piuttosto numerose, considerate le dimensioni del comune (543 abitanti).

Accanto alle già citate Federazione Associazioni Damanhur e CONACREIS, credo meriti menzione la Scuola Familiare Associazione Damanhur Education.
Fondata nel 1985, la Scuola Familiare di Damanhur, si è data il compito di contribuire alla crescita dell'individuo sin dai primi anni di vita.
Fa questo sviluppando nei suoi programmi valori positivi, come il libero arbitrio, l'assunzione di responsabilità, l'accoglimento ed il rispetto della diversità, l'esplorazione del mistero della vita, in una visone ecologica e spirituale.
Il suo impegno in questo senso l'ha portata, nel tempo, a diventare un'Eco School, premiata dalla Fondazione per l'Educazione Ambientale (FEE).

Viverealtrimenti non può che fare i suoi migliori auguri ad Elfo Frassino ed all’Amministrazione di Vidracco, nell’auspicio che altri comuni ― limitrofi e non — seguano presto il sentiero che stanno, pionieristicamente, tracciando.
Per maggiori informazioni, visitare il sito del comune citato

giovedì 12 novembre 2009

Bal Ashram: Newsletter Novembre 2009.

“Vieni e prendi posto nella culla dell’infinito,
bambino mio. All’alba, apri e leva il tuo
cuore come un fiore che sboccia…”


Rabindranath Tagore


Cari amici,
ogni alba al Bal Ashram è un momento magico. Ogni mattino i bambini salutano il sole nascente che si specchia nelle acque della Ganga. Lo sguardo è catturato dalla luce fioca del sole levante e riesce a discostarsene solo quando, raggiunto il punto più alto, l'intensità della luce obbliga a lasciare lo splendore. Così iniziamo le nostre giornate al Bal Ashram. Prima del quotidiano affaccendarsi in mille attività ed impegni, questi brevi momenti di contemplazione in quiete accentrano energie ed entusiasmo fino al successivo tramonto, in cui gli occhi si dilettano ancora ad accompagnare il sole, questa volta, abbandonato il letto del fiume, tra i tetti delle case.
E' difficile non amare questi ritagli di tempo così speciali.
I lavori nell'orto progrediscono: spuntano i pomodori, i cavoli e le verdure locali. Anche le prime piante ayurvediche germogliano mentre sbocciano tutti i nuovi fiori di fronte alla cucina.
Finalmente dopo quasi cinque mesi siamo riuscititi a tornare all'orfanotrofio di Ramnagar. A causa del cambio del direttore abbiamo dovuto attendere tutti questo tempo prima di incontrarlo e di avere nuovamente il permesso per riprendere la nostra visita settimanale (ahimè di sole due ore) a questi sfortunati bambini.
Come in passato i 74 bambini si dividono in due gruppi e possono scegliere se giocare a calcio o altri giochi di squadra oppure disegnare e colorare.
Il pomeriggio si conclude con una merenda che portiamo di frutta e biscotti. Abbiamo conosciuto nuovi bimbi arrivati da poco e rincontrato gli sguardi cresciuti, senza più innocenza e vitalità, di chi vive li da più lungo tempo.
Come vi avevamo anticipato nella precedente newsletter, a fine ottobre abbiamo organizzato la gita a Sarnath con i bambini dell'Anjali school ed i loro genitori.
E' stata una giornata davvero speciale.

L'unico inconveniente è stato il primo approccio di diverse persone (bambini e genitori) con un viaggio in autobus. Quindi dopo una generalizzata nausea iniziale molti hanno cominciato a stare male e la situazione è divenuta veramente buffa e grottesca quando tutti anelavano perdutamente a sedersi vicino al finestrino!
Una volta arrivati a Sarnath, alla scuola, c'è stato qualche momento di imbarazzo da parte dei genitori che non sapevano bene come comportarsi. Per molti di loro è stata la prima volta che qualcuno gli ha dimostrato così tanto rispetto ed interesse per i propri figli. Gli insegnanti ed il preside hanno preso in mano la situazione rompendo il ghiaccio offrendo a tutti un thè.
Una volta accompagnati i bambini nelle rispettive classi abbiamo cominciato a visitare la scuola.
Le mamme erano in maggioranza ma anche i papà presenti hanno partecipato attivamente alla giornata.
Completata la visita e terminate le lezioni del mattino abbiamo mangiato tutti assieme sotto l'ombra del rigoglioso giardino.
Prima di visitare Sarnath abbiamo parlato e discusso con i genitori dei loro figli, dell'importanza di seguirli e motivarli. Cosa non semplice dal momento che comprensibilmente l'atteggiamento di frustrazione, isolamento e trascuratezza dei genitori permea i bimbi. In questo momento di raccolta discussione abbiamo introdotto la possibilità del corso di sartoria per le donne che volessero imparare a cucire in modo professionale. Inaspettatamente la risposta delle mamme è stata immediata ed entusiasta. All'unanimità hanno detto che frequenteranno il corso ritagliandosi un paio di ore con costanza.
Noi siamo molto entusiasti di far partire questo progetto ed immaginiamo già un gruppo di donne affiatate che possano trovare nell'ashram sia un luogo per imparare che un momento di riposo e condivisione femminile.
Nel pomeriggio abbiamo visitato alcuni templi e passeggiato per il parco con i bambini.
Ci ha colpito l'attenzione e l'interesse con cui hanno ascoltato gli insegnanti spiegare i particolari storici e simbolici dei luoghi.
La gita è stata sicuramente un'esperienza piacevole e positiva: un passo in avanti per migliorare qualitativamente il lavoro della scuola.
In settimana andremo ad acquistare, assieme alla coppia di sarti che cureranno il corso, le prime due macchine da cucire e tutto il materiale necessario per iniziare questo progetto al femminile.

Vi salutiamo con un immagine del tramonto, per chiudere il cerchio dei saluti iniziato con un alba.
A fine ottobre si è celebrata con forte intensità sulle rive della Ganga la chatt puja, dove le donne per due giorni hanno salutato il sole nascente ed aspettato il suo tramonto completamente immerse nelle acque del fiume, cantando, compiendo offerte e regalando delle immagini di rara bellezza ed intensità.

A presto, dal Bal Ashram
Camilla e Lorenzo

giovedì 5 novembre 2009

Le proposte di Sarvodaya.

Sarvodaya Shramadana è la più importante organizzazione di base, in Sri Lanka, per lo sviluppo — dal basso ― del paese. È attiva in oltre 15000 villaggi, rappresentando un cruciale vettore di progetti di sviluppo.
Sarvodaya Shramadana è, allo stesso tempo, un movimento, aderente da diversi anni al GEN (Global Ecovillage Network) che integra i principi buddisti con la filosofia e metodologia gandhiane ed è aperto a persone di ogni appartenenza etnica e religiosa. La traduzione letterale di Sarvodaya Shramadana è “condivisione di lavoro, conoscenza e risorse per il risveglio di tutti”. Sarvodaya è stata fondata nel 1958 dal Dr. A.T. Ariyaratne, docente in un istituto buddista.
Il principio fondamentale che muove l’organizzazione è che lo sviluppo inizia con l’individuo, il quale è in un rapporto di interdipendenza con la famiglia, il villaggio, la nazione, il mondo. Di conseguenza, la maggior parte del lavoro di Sarvodaya si svolge a contatto con gli individui, nel loro “spazio vitale”. Essendo lo Sri Lanka un paese ancora, fondamentalmente, rurale, il villaggio è il luogo principalmente deputato alle attività del movimento. Queste spaziano dall’educazione pre-scolare — attraverso la creazione di asili, gratuiti, di villaggio ― ad iniziative di pace ed a favore delle donne, dalla basilare tutela della salute di tutti — a mezzo di piccoli ambulatori, gratuiti, locali ― al microcredito — attraverso una rete di piccole banche ― e ad iniziative di sviluppo e di tutela ambientale.

La sezione internazionale
La sezione internazionale di Sarvodaya promuove iniziative per il beneficio reciproco di volontari di provenienza internazionale e la stessa organizzazione srilankese.
Sarvodaya accoglie dunque, con piacere, studenti, ricercatori, visitatori, gruppi di studio offrendo “programmi personalizzati”, a misura degli interessi dei partecipanti (che possono, ad esempio, lavorare con i bambini in una free school o partecipare a programmi di sviluppo tecnologico in un villaggio o di tutela ambientale e via dicendo)
Dopo una presentazione introduttiva dell’organizzazione nella sua sede centrale di Moratuwa, poco distante da Colombo, Sarvodaya offre l’opportunità di trascorrere da una a quattro settimane in visite organizzate sul campo e, parallelamente, di poter visitare posti di interesse storico e culturale nel paese.
Un programma-tipo prevede una permanenza in un villaggio e la partecipazione ad attività finalizzate alla soddisfazione di alcuni bisogni della comunità ospite.
In alternativa, alcuni volontari possono stare in un distretto dell’organizzazione (ce ne sono più di trenta nel paese), ottima base per visitare alcune località di interesse storico o culturale oppure dare il loro aiuto nella sede centrale. I visitatori possono scegliere liberamente tra le opzioni proposte, potendole anche sposare tutte, in momenti diversi della loro permanenza.
La sezione internazionale può anche ospitare ricercatori e studenti universitari che vogliano approfondire i progetti cui sta lavorando Sarvodaya senza prendersi impegni precisi.
Riassumendo, la sezione internazionale di Sarvodaya promuove:

-Itinerari in alcuni dei villaggi coinvolti nelle sue attività;
-Campi di lavoro internazionali con condivisione di conoscenza e risorse;
-Iniziative volte ad approfondire le realtà della vita srilankese acquisendo una conoscenza di prima mano della pluralità culturale del paese;
-L’incontro ed il consolidamento di relazioni autentiche tra le comunità srilankesi e persone di tutto il mondo.

Sarvodaya offre dunque un’opportunità per esplorare lo Sri Lanka ed approfondire la filosofia e le prassi di un’organizzazione impegnata nell’ambito dello sviluppo sostenibile.
Chiunque fosse interessato come visitatore, studente, volontario o potenziale collaboratore può utilizzare i seguenti recapiti:

International Division-Sarvodaya Headquarters
98, Rawathawatte Road, Moratuwa, Sri Lanka.
Tel +94112655419
E mail sarvishva@itmin.net
Web site www.sarvodaya.org

mercoledì 4 novembre 2009

Sri Lanka: brevi note di viaggio.

La hostess ha una bellezza raffinata ed aborigena ad un tempo, con la sua standardizzata capigliatura a cipolla. Indossa un sari blue per buona parte aperto sulla schiena ed ha la pelle color cioccolato deciso. L’aereo arriva puntualissimo a Colombo. Siamo partiti dall’aereoporto di Gaya, nello stato indiano del Bihar, poco distante dal Mahabodhi Temple e dal Bodhi Tree dove il Buddha, 2500 anni or sono, ebbe l’esperienza del “risveglio”, della “grande comprensione” (la radice sanscrita Budh sta infatti per “intelletto”), orrendamente tradotta, a parere di chi scrive, con il termine “illuminazione”.
Nella hall dell’aereoporto di Gaya campeggia una statua gigantesca di Gautama Siddharta, laccata in oro. Risuona, inoltre, uno dei principali mantra buddisti in filodiffusione. Posso dunque dire che siamo partiti sotto i migliori auspici.
Giunto al banco dell’immigrazione, nell’aeroporto quasi rutilante di Colombo (pur alla lontana, Thailandia docet qui), mi imbatto in una scritta inquietante: chiunque dovesse essere sorpreso a portare droghe, in Sri Lanka, incorre nella pena capitale (death penality). Io, tra l’altro, non sono in una posizione regolarissima. È una di quelle situazioni paradossali in cui ci si può trovare in questi paesi. Non ho, in poche parole, il biglietto di ritorno. Il mio agente di viaggio, a Varanasi, mi aveva detto che è illegale comprare un biglietto, dallo Sri Lanka per l’India, nel momento in cui non si ha un visto per stare in India (visto che ho intenzione di richiedere all’ambasciata indiana di Colombo). Allo stesso tempo, però, non si potrebbe ottenere il visto sri-lankese, all’aeroporto, se non si ha un biglietto di rientro o, comunque, di uscita dal paese. Io, naturalmente, faccio il vago. L’impiegato mi chiede quanto intendo restare mentre imprime un timbro sul passaporto. Venti giorni, rispondo. Sul timbro è riportato il mio permesso di un mese. L’impiegato non manca, però, di chiedermi il biglietto di rientro. Gli spiego che il mio agente non me lo ha potuto fornire adducendo la questione dell’illegalità. «Dunque lei non ha il biglietto di ritorno?» mi ribatte lui. «No ma intendo farlo quanto prima, ho il numero telefonico di un rappresentante, qui a Colombo, dell’agenzia con cui ho fatto il biglietto a Varanasi». L’impiegato non è convinto e dice una parolina magica che si sente, a mo’ di mantra, di continuo in India: «problem!». Io insisto con la storia del rappresentante del mio agente di viaggio e lui mi lascia passare. Ho prenotato per un paio di notti all’hotel Colombo House, in centro-città. Fatico, con il taxi-driver, a trovarlo, data la numerazione piuttosto irrazionale delle strade. Il posto più che un albergo è una signorile villa coloniale, con bel mobilio anni ’30-’40, in una tranquilla area residenziale. Ha appena 4 stanze. Come altre, vicine, abitazioni, ancora in stile coloniale, ha un giardino con bella vegetazione ubertosa ed un micro-bosco di canne di bambù. La mattina è un splendido risuonare di uccelli tropicali. Alcune abitazioni vicine hanno alberi monumentali sul proprio terreno, non di rado Banyan Trees con i rami che, dall’alto, radicano in terra, con radici aeree che si fortificano in veri e propri tronchi. Ci sono, in altre parole, suggestive sezioni di foresta in centro-città.
Colombo è senz’altro più pulita delle città indiane (mi posso quasi azzardare a dire: senza eccezioni di sorta) e ne balza subito all’occhio la dimensione multireligiosa. Diversi angoli e crocicchi ospitano edicole con statue di Gesù (il più delle volte in piedi nell’atto di predicare o benedire e non pietosamente appeso ad una croce), della Madonna o santi cristiani (in particolare Sant’Antonio). Più spesso statue di Buddha, seduto in meditazione o, a sua volta, in piedi, in tutta la sua imponenza carismatica. Si incontrano chiese di diverse confessioni cristiane, eredità del colonialismo portoghese, olandese e britannico, stupa e pagode e non mancano piccole moschee, a seguito dello stanziamento, sull'isola, di commercianti arabi a partire dai primi secoli dell'era cristiana e dagli albori, nel settimo secolo dopo Cristo, dell'Islam. Poche le tracce dell’induismo, ugualmente presente nel paese, portato soprattutto dai vicini territori tamil. Sugli autobus si possono trovare gigantografie della dea hindu della ricchezza, Lakshmi, nell’atto di produrre monete d’oro dalla sua mano destra. Credo si possa dunque parlare di un colorato pot pourri. Prendere l’autobus governativo, a Colombo, può far assaporare l’essenza del viaggio quasi come viaggiare, per le lunghe percorrenze, sui treni indiani. Sono vetture meravigliosamente obsolete, parallelepipedi di lamiera, a design schematico, "da paese sovietico". Avranno, in genere, non meno di 25-30 anni; sono un pezzo di anni ’70-primi anni ’80 con le ruote e, tuttavia, sembrano tenuti abbastanza bene. Dentro c’è quasi sempre un’atmosfera morigeratamente delirante, da paese tropicale. La musica ad alto volume. I finestrini costantemente aperti, con grandi correnti d’aria in tutto l’abitacolo. Le ragazze sono molto femminili. Indossano sari o larghe, comode e pudiche gonne di cotone. Di rado sono truccate mentre profumano, il più delle volte, di saponi esotici. Il bigliettaio va su e giù, gli spazi tra le dita di una mano pieni di banconote pieghettate. Ad ogni fermata urla le destinazioni principali. Ed anche gli autobus di Colombo, come i treni indiani, corrono aperti, con portelli aperti sul trascorrere della strada impolverata, grigia d’asfalto. Le persone, spesso, salgono “al volo” sul mezzo in movimento. Sono tanti gli autobus a Colombo. Mi sembra rappresentino un buon servizio pubblico. È dunque difficile siano sovraffollati. C’è quasi sempre posto a sedere per tutti ed i posti non sono stati concepiti al risparmio, stretti, angusti, come ho potuto notare (e soffrire) il più delle volte, in India ed in Nepal. Sono comodi, nella loro asciutta spartanità. La gente mi sembra civile, poco prevaricatrice (al contrario, ancora una volta, di quanto si possa percepire in India, dove l’inciviltà, pur a fronte di alcuni aspetti straordinari del paese, regna grossomodo sovrana).
Mi sembra ci sia un bell’equilibrio di popolo, qui. Credo sia nettamente percepibile l’effetto calmierante del buddismo e di un cristianesimo di devozione che può ricordare quello, sobriamente popolare, delle Filippine o dell’America Latina. Non manca, del resto, la Colombo a 5 stelle, con hotel in cui sono riprodotti, nelle ampie hall, piccoli canali artificiali di stile moghul, ristoranti e caffè francamente pretenziosi, taluni con pretese di arte moderna, di avanguardia “stantia”.
Contrastano con i daba, le canteens, dove mangia la gente del popolo, generalmente con le mani. Il riso abbonda sulle loro tavole, in grandi scodelle da cui ci si può servire con piattini di metallo. Più striminzite le porzioni di carne (spesso pollo) e di pesce. Non si lasciano desiderare i crostacei, soprattutto i gamberi, in intingoli di cipolle e peperoncino. Anche qui, come in India, il consumo di alcool è tenuto a freno. Non tutti hanno la licenza per venderlo e, in molti casi, bisogna comprarlo in negozi specializzati, con commessi dietro inquietanti inferriate ed una, generale, aura un po’ sinistra. Diversamente che in India, tuttavia, ci sono un discreto numero di bar, finanche di pub, dove servono quantitativi generosi di Arrak, un liquore di 38 gradi ricavato dal fiore della palma da cocco.
A Colombo merita visitare il National Museum, ricchissimo di sculture, dove è possibile ritrovare diversi degli stili tradizionali indiani. Inutile dire che la statuaria dominante rappresenta il Buddha ma non mancano rappresentazioni di Vishnu, Parvati, delle sapta matrikas, le sette madri, ovvero le consorti dei principali dèi della tradizione vedica a testimonianza di un passato arcaico di questa terra, popolata molto presto da genti provenienti dal vicino subcontinente. I primi singhalesi, originari del nord dell’India, arrivarono in Sri Lanka intorno al quinto-sesto secolo avanti Cristo. A questa prima ondata avrebbe fatto seguito un'altra di commercianti e pescatori dal sud del subcontinente, dai territori tamil cui si accennava in precedenza. Poco tempo dopo l'isola conobbe una progressiva, profonda conversione al Buddhismo, iniziata con i missionari dell'imperatore indiano Ashoka che, nel terzo secolo avanti Cristo, vi inviò anche i suoi due figli: Mahinda e Sangamitta.
Come posso, mi muovo da Colombo per godermi un po’ di mare. Mi spingo quasi cento chilometri a sud, ad Hikkaduwa. Siamo fuori stagione. La località è quasi desertica e le accommodations sono a prezzi dimezzati. Il mare è turbolento, imprevedibile, a momenti decisamente rabbioso. Le onde possono intensificare notevolmente la propria violenza da un momento all’altro per poi acquietarsi un poco.
Può essere una situazione stimolante per fare surf che è, infatti, una delle attrazioni del posto.
Bisogna tuttavia fare attenzione alle barriere di scogli, a pochi metri dalla riva. La loro presenza, considerata la violenza delle onde, non è rassicurante. Mi sistemo al Lucky Dolphin per 4 notti. Il manager è piuttosto pressante. Cedo, un paio di sere, alle sue lusinghe di cena con gamberi di acqua dolce e, la seconda volta, con un enorme granchio. Nei giorni seguenti, tuttavia, sono di casa al Moon Beam Hotel, a 500 metri dal Lucky Dolphin. I prezzi sono molto simili ma la qualità del servizio non teme confronti. Mi sfizio, a pranzo, con un’ottima aragosta accompagnata, tra l’altro, da un insalata da cui emerge, gradevolissimo, il sapore di dolci spicchi di ananas.
A pomeriggio inoltrato, scambio due chiacchiere con l’affabile proprietario del Moon Beam Hotel davanti ad un bicchiere di Arrak. Il buio, nella veranda del ristorante, è rischiarato dalla calda luce delle candele, in affusolate lampade di vetro o in simil-zucche stile halloween (senza la peculiare eco macabra).
Il giorno dopo sono in spiaggia, al tramonto. Il mare è particolarmente irruento. Il moto delle onde è multi-direzionale. Si infrangono rumorosamente a riva dal largo ma, allo stesso tempo, dalla riva alcune onde si alzano verso il largo, non di rado scontrandosi con quelle che arrivano nella direzione opposta. Sembra poi esistano missili subacquei che corrano in lungo a pochi metri dalla riva per cui le acque si rialzano veloci, in orizzontale, emettendo sibili intensi e producendo tanta schiuma bianca spumeggiante. La spiaggia, alla mia destra, si sviluppa in buona parte in rettilineo per poi curvare dolcemente a sinistra, come raccogliendo il mare infuriato in un pacato e parziale abbraccio. È uno spettacolo fitto di coccheti e tanti banani, a pochi metri dalla sabbia ed il colore del cielo è meravigliosamente aranciato e raddensato dall’alto livello di umidità, dato dal prorompere selvaggio del mare. Una visione quasi irreale, quasi apocalittica, nel frastuono moderatamente assordante e pervasivo delle onde. Non si sente altro, seduti come dentro una grande arancia che contiene il verde, oramai scuro, dei coccheti e dei banani fino a che le prime luci fioche delle rade abitazioni iniziano ad essere più visibili per poi punteggiare, di bottoncini gialli, il buio di Hikkaduwa.
Il letto è enorme e comodissimo, al Lucky Dolphin; può quasi rivaleggiare con quelli che ho apprezzato nella sensuale Thailandia e non fa minimamente rimpiangerei tavolacci di Varanasi e di accommodations indiane che non siano costose.
È sormontato da un economico ma piacevole baldacchino di legno. Di giorno, sulla spiaggia, arrivano dimessi, semidisperati venditori di copriletto di seta (che faticano davvero a reggere il confronto con quelli che possono trovarsi nel nord dell’India), collanine, qualche sparuto massaggiatore. Si aggira anche un sordomuto, richiedendo soldi a mezzo di scritta su un quaderno.
Si sente, netta, la eco della profonda crisi economica, conseguente al conflitto etnico che ha insanguinato il paese per molti anni e che si è definitivamente (c’è da sperarlo, almeno) concluso da appena qualche mese. Anche a Colombo poveri e mendicanti non si fanno desiderare. Certo, non ci sono le legioni di diseredati che si possono trovare in India o le frotte di bambini storditi dalla colla di alcune strade di Kathmandu e, tuttavia, le condizioni di vita di molte persone, qui in Sri Lanka, rasentano la disperazione mentra la rupia srilankese è, praticamente, carta straccia.

Viveraltrimenti tornerà presto ad aggiornare i suoi lettori da altri itinerari sri-lankesi. Attendete dunque fiduciosi…

martedì 3 novembre 2009

Riflessioni per il giorno della luna piena: Lunedì 2 novembre 2009.

Come l’acqua scivola da una foglia di loto
i piaceri dei sensi
non aderiscono
a un grande essere.


Dhammapada strofa 401

Un grande essere è grande perché è libero o libera da impedimenti nel
modo in cui si relaziona alla vita. Noi non siamo veramente grandi
perché restiamo intrappolati nelle emozioni e facciamo della vita un
problema. Creiamo ostacoli con il nostro modo di rapportarci agli otto
dhamma mondani: lode e biasimo, guadagno e perdita, piacere e
sofferenza, popolarità e scarsa importanza. A causa dell’illusione, ci
relazioniamo a questi venti mondani in modo incurante, indulgendo in
quello che ci piace e resistendo a quello che non ci piace. La
saggezza, al contrario, vede semplicemente la realtà del mondo
sensoriale. Conosce lo spazio entro cui tutte le esperienze sorgono e
cessano. Tale conoscenza fa sì che un grande essere non ha nemmeno
bisogno di tentare di lasciar andare: ogni tendenza ad attaccarsi cade
automaticamente. Un grande essere, uomo o donna, fa esperienza del
piacere sensoriale ma non vi aggiunge né vi sottrae niente.

Con Metta,

Bhikkhu Munindo

(Ringraziamenti a Chandra per la traduzione)

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Santacittarama
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