TRANSUMANZA

QUESTO BLOG E' IN VIA DI SUPERAMENTO. NE STIAMO TRASFERENDO I POST MIGLIORI SUL SITO DI VIVEREALTRIMENTI, DOVE SEGUIRANNO GLI AGGIORNAMENTI E DOVE TROVATE ANCHE IL CATALOGO DELLA NOSTRA EDITRICE. BUONA NAVIGAZIONE!

martedì 23 febbraio 2010

My name is Khan e non sono un terrorista!

My name is Khan…e non sono un terrorista: è la frase leitmotiv dell’ultimo film del giovane regista indiano Karan Johar (classe 1972) che ha debuttato ad Abu Dhabi il 10 febbraio 2010. My name is Khan sta avendo un ottimo successo in India oltre ad un notevole riscontro di incassi in Gran Bretagna, Stati Uniti, Oceania e Medio Oriente e ad essere presente, come film fuori concorso, al sessantesimo festival internazionale del cinema di Berlino.
In Italia, stando a quanto si legge su internet, non mi sembra proprio stia facendo faville ma è troppo presto per dirlo. Una critica sul sito www.close-up.it, lo presenta nei seguenti termini:

Un magnifico polpettone firmato Bollywood questo My name is Khan […]. Una grande ed emozionante favola del presente che punta dritto al lacrimone facile con tanti luoghi comuni e una furba cifra stilistica. E’ un film kitsch, sopra le righe, esasperato in ogni situazione e nella caratterizzazione dei personaggi, sempre pronto a far sembrare ordinario lo straordinario; è un’opera che insiste (anche troppo) sul valore dei sogni, della giustizia, della fratellanza, della pace […].

Personalmente non sono affatto d’accordo ma, prima di tutto, consideriamone brevemente la trama: Rizwan Khan è un ragazzo musulmano di Bombay. E’ affetto da Sindrome di Asperger (più comunemente conosciuta come autismo) che ne fa un emarginato e, allo stesso tempo, un piccolo genio, capace di riparare quasi ogni prodotto meccanico od elettronico che sia. Rizwan vive con la mamma ed il fratello minore, Zakir, che ne diventa presto geloso per la maggiore attenzione che catalizza in casa. Zakir lascia dunque l’India per la California. Studia a S.Francisco dove riesce ad affermarsi professionalmente. Raggiunta l’età matura, anche Rizwan lascia l’India per S.Francisco, dove il fratello lo ingaggerà come rappresentante dei prodotti cosmetici e di bellezza dell’azienda in cui lavora.
Rizwan, in un beauty parlour, incontra Mandira, un ragazza indiana di religione hindu e, dopo un periodo di frequentazione amicale, i due si innamorano e si sposano. Mandira esce da un matrimonio fallito che, tuttavia, le ha lasciato un figlio: Sam, di 10-12 anni. Mandira e Sam, a seguito del matrimonio, prendono il nome di Rizwan: Khan. Sono sostanzialmente felici pur nella stravaganza della loro condizione sino a quando, una mattina, Mandira risponde assonnata al telefono. Le viene detto di accendere la televisione: le Torri Gemelle sono oramai un cumulo di macerie. E’ l’11 settembre 2001.
La vita inizia dunque ad essere difficile per i musulmani Khan. Mandira aveva aperto un negozio, in proprio, di parrucchiera ma i conti finiscono per essere drammaticamente in rosso. Dopo qualche tribolazione viene assunta in un nuovo negozio, malgrado il cognome che porta. I problemi dei Khan sembrano dunque rientrare per quanto sia in atto una forte discriminazione, negli Stati Uniti, nei confronti dei musulmani. Dopo qualche tempo, un caro amico dei Khan, Mark, deve andare a combattere in Afghanistan da cui non farà più ritorno. Reese, il figlio, è molto legato a Sam ma dopo la morte del padre inizia ad evitarlo sistematicamente. Sam chiede spiegazione di questo comportamento ma altri amici di Reese iniziano a picchiarlo selvaggiamente fino a calciargli una violenta pallonata sul petto che lo conduce, in fin di vita, in ospedale. Il tentativo, in extremis, di massaggio cardiaco non ha il successo sperato. Mandira è sopraffatta dal dolore. Vuole sapere chi è stato ad uccidere il figlio ma mancano prove, testimoni, qualunque elemento valido per rintracciare i colpevoli. Lei incolpa dunque Rizwan, in particolare il suo nome, per la tragica perdita del figlio. Rizwan si trova dunque costretto a lasciare il tetto coniugale e a vagare in America, sostentandosi con l’unico, eclettico mestiere che conosce: riparare quasi ogni cosa. Il suo vagare, tuttavia, non è fine a se stesso. Vuole incontrare il presidente Bush e dirgli: il mio nome è Khan (sono musulmano) ma non sono un terrorista! È quanto gli ha chiesto in ultimo, tra le lacrime (una richiesta evidentemente paradossale), Mandira. Lui partecipa ad una manifestazione di supporters di Bush ed inizia a declamare: il mio nome è Khan ma non sono un terrorista! La parola terrorista, tuttavia, fa scattare un allarme furibondo. Rizwan viene arrestato. In carcere viene torturato, gli chiedono di confessare i rapporti con alcuni indagati per terrorismo. Lui non ha nulla da dire se non: il mio nome è Khan ma non sono un terrorista! Due giovani giornalisti indiani lo avevano ripreso poco prima del suo arresto, mentre declamava la frase-leitmotiv del film. Riescono a coinvolgere la televisione e, con il supporto in carcere di una psichiatra che crede nella sua innocenza, Rizwan viene rilasciato. Diventa un personaggio pubblico e fa presto parlare ancora di sé per un suo intervento tempestivo in Georgia, in una comunità alluvionata per un violento uragano. Si trascina dietro la televisione che aveva seguito le sue disavventure con la giustizia americana e presto prende forma una catena di solidarietà. Molte persone raggiungono Rizwan in Georgia, finanche Mandira, per aiutare gli alluvionati. Lo raggiunge anche un estremista islamico. Questi accoltella l’eroe autistico che, prima del suo arresto, aveva tentato di avvertire l’FBI dopo aver ascoltato, in una moschea, un progetto bellicoso di un piccolo gruppo fondamentalista (essere riusciti a dimostrare quel tentativo di comunicare con l’FBI, da parte dei suoi sostenitori, è stato uno degli elementi vincenti per la sua scarcerazione).
Rizwan sopravvive alla coltellata e corona il suo sogno di essere ricevuto dal neo-eletto presidente Barack Obama che gli riconosce pubblicamente che lui si chiama Khan e non è un terrorista.

Venendo al mio personale giudizio sul film trovo che definirlo un polpettone sia ricorrere ad un facile cliché che colpisce, generalmente, Bollywood. Io trovo invece che, malgrado Bollywood pulluli di polpettoni, questo sia un film che ne alza notevolmente il livello (al contrario di altri film di Shahrukh Khan, l’attore principale ed autentica icona in India, come Om Shanti Om la cui colonna sonora mi ha ammorbato un intero inverno, in India, a cavallo tra il 2007 ed il 2008).
My name is Khan è un film drammatico e, tuttavia, potrei quasi definirlo leggero. Riesce, in altre parole, a tratteggiare gravi tragedie con l’intensità e, al contempo, una sorta di distacco di fondo di cui solo gli indiani, nella realtà, nel quotidiano, non (solo) nella fiction sanno essere capaci.
È un film che ha il coraggio di affondare il bisturi in una problematica tanto grave quanto delicata nella sua profonda contemporaneità: l’incontro/scontro di civiltà diverse, con tutto il portato culturale e religioso che ne consegue. Questa è un’altra grande questione in cui l’India può essere maestra, per la semplice ragione che è, da tempi lontani, un paese culturalmente e religiosamente plurale. Non solo, dove la pluralità religiosa e culturale è sempre stata, salvo alcune, drammatiche eccezioni, ragione di ricchezza più che di conflitto. È molto bello assistere alla pacifica convivenza di persone di religioni diverse qui in India, dove è del tutto normale passare di fronte ad un tempio hindu, cogliendone rapidamente la fragranza di incenso ed il suono ripetitivo delle campane della puja (celebrazione di offerta alla divinità) avendo ancora nelle orecchie l’echeggiare del muezzin o comprando le sigarette da un commerciante sikh, con inconfondibile turbante o, ancora, incontrando su un rickshaw una famiglia di tibetani, come mi è successo proprio oggi di ritorno dal cinema, a Varanasi, probabilmente venuti in pellegrinaggio a Sarnath, dove il Buddha fece il suo primo sermone e che oggi rappresenta una delle più importanti mete di pellegrinaggio buddista.
Noi italiani, tuttavia, si sa, siamo provinciali ed il nostro provincialismo ha i suoi automatismi: Bolliwood=polpettone, trascurando che My name is Khan ci offre, ad esempio, una prospettiva diversa dell’11 settembre, visto come tragedia per i musulmani oltre che per gli americani. È notorio, difatti, che i musulmani hanno subito gravi discriminazioni e persecuzioni a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle. Musulmani che, naturalmente, non avevano nulla a che fare con Al Qaeda, malgrado esistano altri automatismi come musulmano=terrorista. Ed è proprio contro questo genere di drammatici automatismi che si pone, in maniera bella, poetica, intelligente, finanche coraggiosa il film di Karan Johar. Trovo difatti più che legittimo, da parte di un musulmano (come è lo stesso Shahrukh Khan), che non può non diventare il simbolo dei suoi correligionari, rivendicare la propria dignità ed il diritto ad essere trattato con lo stesso riguardo riservato a cittadini di altre religioni.
Del resto, il miglioramento della convivenza interreligiosa è una delle grandi sfide della globalizzazione, una sfida che sembra proprio stiamo avendo seria difficoltà ad affrontare in Italia. Pensando ad un futuro auspicabile per il nostro paese, vorrei innanzitutto non trovare più sui nostri giornali articoli come quello che lessi alcuni mesi fa, in cui un alto prelato sosteneva dovessimo ostacolare la creazione di moschee, per gli immigrati musulmani in Italia, per evitare che altri simboli del sacro si confondano con quelli della “vera religione”. Trovo sia una posizione, in primo luogo, del tutto fuori della storia perché volenti o nolenti avremo sempre più persone, di religione diversa, occupati sul nostro territorio (che hanno tutto il diritto di avere propri luoghi di culto). In secondo luogo, rivelatrice di una debolezza di fondo: quanta poca fiducia si deve avere, nella propria “vera religione”, per temere la concorrenza dei simboli di altre, erronee, religioni? In terzo luogo, una posizione barbaramente discriminatoria, foriera di odio interreligioso e, più semplicemente, interumano che può realmente contribuire a creare i presupposti per le peggiori, cruente degenerazioni. Che può essere benzina sul fuoco dello stesso terrorismo jihadista.
My name is Khan è dunque, a mio parere, un film da vedere ed assimilare, più che liquidare in poche frasi spocchiose. Le musiche sono molto coinvolgenti pur non trascinando il film sul terreno abusato del musical bolliwodiano, Mandira è molto bella e straordinariamente umana, Shahrukh Khan ha fatto del suo meglio per interpretare la parte di un autistico per quanto Dustin Hoffman, in Rain Man, sia stato probabilmente più capace ma questo non basta a squalificare il film di Johar. Vedetelo!