TRANSUMANZA

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giovedì 15 aprile 2010

Viverealtrimenti riannoda, a Cambridge, le fila del suo lungo viaggio.

I lettori abituali di viverealtrimenti avranno probabilmente notato che, nell’ultimo mese, i post loadati sul blog-magazine sono stati, soprattutto, newsletters di comunità intenzionali ed ecovillaggi. E’ dunque mancata, in questo periodo, la dimensione creativa, il racconto di matrice in buona parte nomadica o altri contributi che non siano stati, semplicemente, la divulgazione di materiale di altri, pur legati a questo piccolo media da affinità di vario ordine e grado. Oggi si può spezzare questa fase di austerità creativa, calato nell’archetipo stesso della città collegiale: Cambridge. Una località francamente inusuale per viverealtrimenti che ha nell’Asia il suo terreno d’elezione dove, difatti, ha elaborato variegati percorsi per circa 9 mesi prima di raggiungere questa “isola piovosa” (bella definizione di Federico Rampini per la Gran Bretagna) e questo storico centro irradiatore di conoscenza. Meraviglioso se non fosse per molti gelidi sguardi, una tensione diffusa e palpabile, tipica di quei posti che abbiano la fama di “essere più su”.
Gli ultimi contributi per la sezione nomadismo giungevano dallo Sri Lanka e poi dal Tamil Nadu. Gli itinerari tamil, dopo Madurai, sono continuati in alcune città templari, in particolare Thanjavur e Chidambaram dove si trova il famoso tempio di Shiva Nataraj. L’esperienza dei templi tamil meritava davvero di essere vissuta. Sembra siano appartenuti a generazioni di giganti per l’assoluta mancanza di risparmio sullo spazio e sul materiale.
Le loro molte colonne, proporzionatamente monumentali, sono sapientemente cesellate. I virtuosismi architettonici dei grandi ambienti hanno previsto magistralmente suggestioni di penombra dove si muovono, furtivi, i pipistrelli, la cui presenza rende l’aria gravida di odore di guano.
Il cuore dei templi tamil, nel centro degli stessi, ricorda facilmente un utero di pietra, non a caso risponde al nome sanscrito Garbha Griha (grembo/casa). Il buio uterino è particolarmente intenso e sarebbe assoluto se non fosse rischiarato da fiammelle su lucernai ancora sapientemente cesellati, ad illuminare statue dalle fattezze arcaiche di divinità hindu inghirlandate di fresco.
Il tempio più suggestivo l’ho visto a Kumbakonam dove mi sono fermato per necessità. Mi muovevo con corriera governativa e quel giorno il numero di passeggeri era praticamente insostenibile. Era appena finita una delle innumerevoli festività hindu e molti tornavano a casa da visite a parenti o da fugaci rimpatriate ai villaggi d’origine.
Ero diretto a Chidambaram, sedendo in un bus con un numero incalcolabile di persone attorno e, al momento di cambiare mezzo per percorrere gli ultimi 50-60 chilometri, sono stato vittima di un indomabile scoraggiamento, vedendo quante persone lo stavano aspettando, in un’aura di caotico nervosismo, sul marciapiede.
Ho deciso dunque di pernottare in quella città di cui non conoscevo nemmeno il nome. Avrei tuttavia trovato un buon hotel e, l’indomani, un antico e macroscopico tempio di Vishnu. Poco sfruttato, in realtà, in quanto la località, al contrario della poco distante Chidambaram, non è particolarmente presa d’assalto dai turisti. Ho raggiunto il Garbha Griha, vivendone la suggestiva dimensione uterina. Vi ho riposato senza tempo, le spalle poggiate ad una grande colonna in una penombra da ambienti di gobbo di Nôtre Dame ed ho in qualche modo ritrovato le profondità di alcuni stati meditativi, difficili da raggiungere in contesti ordinari. Lasciato il tempio ed i suoi grandi stucchi di pietra delle tronche torri esterne (tra cui si scorgeva qualche sparuta posizione del kamasutra, versione tamil di bassorilievi ben più stupefacenti ed arditi sui noti templi di Khajuraho), mi sono lasciato camminare per quella città innominata, trovando un’India che molti spererebbero di incontrare in giri, talora vani, per il paese: un fiume dove donne in sottili sottovesti colorate, rese aderenti dall’acqua in cui stavano immerse fino a sopra le ginocchia, lavavano placidamente i panni della propria famiglia e poi, continuando a camminare, lo sfumare dell’abitato urbano in una dimensione arcaica di villaggio con galline, capre e maialini bradi su strade sempre più impolverate e maltenute. Lì sono stato invitato in una casupola a vedere, seduto su una stuoia, il film Avatar in versione pirata in lingua spagnola. Un gruppo di ragazzi in dothi mi ha fatto corona attorno. Siamo poi usciti, camminando lungo binari di una linea secondaria, visitando un vecchio edificio abbandonato per poi lavarci i piedi alla fondana del villaggio, pompando, a turno, l’acqua, gli uni sui piedi degli altri. Dopo la successiva tappa di Chidambaram, ho raggiunto la rutilante Chennai, una sorta di Shangai indiana, in cui pullulano i ristoranti ed i localini trendy, con selezione all’ingresso, servizio pedante e qualità mediocre del cibo. Terreno d’elezione dell’homo tromphius, l’indiano ricco o che sta vivendo il vertiginoso processo dell’arricchimento e non fa davvero nulla per non farlo pesare, in ogni modo, al suo prossimo che non esita a “negare” in ogni modo, ignorandolo deliberatamente o, nel momento in cui deve interagirci forzatamente, dando vita ad una recita del tutto asettica, senza la minima concessione ad un “tiepido calore” umano. In una vertigine spazio-temporale, è la stessa tristezza che è possibile cogliere qui a Cambridge, dove l’homo tromphius alberga in una tunica di carne bianca, spesso grassa e punteggiata di nei chiari a volte un po’ rigonfi. Pelle a volte arrossata da postumi di sbornia, gonfia di lievito di birra o di fermentazioni alcoliche più impegnative, della ritenzione idrica da alimentazione malsana. Cambiano le tuniche di carne ma non la sostanza ovvero, ahimè, la stessa, umana idiozia. Fortunatamente a Chennai ho avuto modo di raggiungere presto il quartier generale della Società Teosofica, lungo il corso del fiume Adyar che dà il nome all’intero sobborgo. Ho sostato lì due settimane, spendendo del buon tempo nella grande biblioteca (ospita circa 250000 testi), leggendo e scrivendo e conoscendo gente interessante in occasione dei pasti leggeri ed insolitamente sani. Varanasi, dove sarebbe terminato il mio viaggio dallo Sri Lanka, era ancora troppo fredda allora (Gennaio avanzato) e non spasimavo per raggiungerla in fretta. Dopo una sosta comoda ad Adyar ho dunque raggiunto Calcutta. L’impatto con il nord dell’India è stato un minimo traumatico: più freddo, più povero, più duro e disperato. Il Tamil Nadui, come mi diceva in Sri Lanka il mio amico Peter, ospita, in effetti, un popolo industrioso, con una buona attitudine imprenditoriale. Anche in posti periferici, in terra tamil, ho trovato buoni, talora ottimi ristoranti, alberghi accoglienti anche se, in alcuni casi, particolarmente economici. Città con bei giochi di luminarie la sera che incoraggiavano una sensazione di sollievo per un palpabile, progressivo arricchimento di quella terra. Calcutta, invece, mi si offriva cadente alla vista mattutina dal taxi. Cadente nel suo sopore da notte non integralmente terminata e, in molti casi, maldormita. Mi si offriva sporca e lacera nei muri e nei cartelloni pubblicitari. Fognosa, fumosa di focherelli stentati, inadeguati a contenere l’intirizzire di corpi mattinieri innanzi ai desolati chai shop. Calcutta portuale e sinistra, colta e sensuale, mistica ed arcaica, con ancora in uso il suo altare sacrificale per l’offerta di caprette sgozzate alla dea Kali mentre fuori pullulano, colorate, tinte in faccia e con la porporina sulle palpebre, prostitute spesso in erba. Per compensare, ho nutrito la mia permanenza in città all’Hotel Oberoi, celeberrimo nel paese. Ho mangiato pappardelle al sugo di lepre, anatra all’arancia, bevendo vino passabile (per non spendere cifre spropositate) incontrando ancora l’homo tromphius nelle sue variegate, plurisfumate tuniche di carne ed ero poi, nuovamente, nelle strade affogate nei mercati, nei vicoli loschi con patchwork di robivecchi sugli striminziti balconi. Occhi ammiccanti di donne, nugoli di prostitute, a sera, anche a Sudder Street dove avevo il mio albergo, poco distante dal fastoso Oberoi. Non credo altra città possa essere cosi’ portuale, accattivante e venefica come Calcutta, retrò con i suoi grammofoni ed i tanti vinile venduti, su strade importanti o secondarie, per un sacco di granaglie. Calcutta mi seguiva con le sue atmosfere immutabili sul treno. Me la sono portata fino a Varanasi dove siamo giunti con circa 12 ore di ritardo. Era il 5 febbraio e la città era ancora stretta in una crudele morsa di freddo. Un freddo incontrastabile per la disarmante precarietà di tutto: i muri di sabbia della casa del dharma, dove alloggio nei miei soggiorni varanasini, permeabilissimi all’umidità, l’assenza di vetri alle finestre, i molti spazi aperti da cui il freddo entrava senza chiedere il permesso, la pateticità degli scaldini a gas che saturavano l’aria di un odore molliccio, di precarietà quotidiana. Ho trascorso un mese a Varanasi, nella casa del dharma e poi quasi 20 giorni ad Haridwarr dove il Gange è più impetuoso e freddo, per il Mahakumbh Mela, il più importante raduno hindu. Sono stato ospite in un campo di tende spartane ed ho partecipato ad un incontro con Jasmuheen, la donna australiana che, acquisita una capacità che ha avuto precedenti importanti in yogi e yogini, vive di solo prana da circa 16 anni, avendo trasceso il bisogno stesso di mangiare. I suoi capelli sono color canarino, ha begli occhi celesti, espressivi come quelli di una bambina matura per la sua età e particolarmente intelligente. Una vibrazione eterea, composta e vitale. Con Jasmuheen ed altri partecipanti all’incontro abbiamo fatto godibili bagni nella fredda Ganga, conosciuto tanti baba, cantato mantra e meditato in silenzio. Non ho potuto non tenere un diario di tutto l’evento che condividerò in questo blog-magazine.
Il 25 marzo, infine, dopo una breve sosta a Delhi, è stato il momento di tornare in Europa. Londra ― dopo l’India, irrimediabilmente più profana di quanto non sia già ― mi ha aperto le prospettive di un primo mondo dove inizia qualche timido black-out, dove tutto è razionalizzato fin negli aspetti più minuti (aiuto!), dove alle 5 cominciano a chiudere gli uffici e ad aprire i pubs. Sembra davvero che Londra sia di tutti e, un po’ meno, degli inglesi. Ho goduto di chiacchierate telefoniche, in hindi, sulla metropolitana, di indiani che mi sembrava di ritrovare, socialmente realizzati, dopo averli lasciati, miserabili, sotto i ponteggi grigi di Delhi. Tanti africani, caraibici, estremo-orientali. Tanti italiani, tanti francesi, spagnoli ed est-europei. Sono stato un po’ in Cina a Chinatown, in Belgala ed in Bangladesh a Brick Lane, in Argentina a Broadway Market, nel cuore d’Italia in un buon ristorante italiano di Shoreditch, essendo sempre, inequivocabilmente, nella grande, pluriaccogliente, capitale inglese. Mi è sembrato di vivere, in questi giorni, un sobrio sogno di buona globalizzazione, stemperato da risvegli di provincia, a Warringhton, nel nord dell’Inghilterra ed ora in questa apollinea Cambridge, in una delle tante biblioteche, su di una poltrona di pelle crepata. Fuori il sole illumina pallido i severi, pseudo-gotici edifici di pietra ed ogni tanto il vento di Siberia caccia al chiuso i pedoni delle strade linde da rasentare l’inospportabilità. Il college del mio amico Simon ha un cancello alto, inscavalcabile che si apre elettronicamente avvicinando la tessera magnetica ad una cellula foto-elettrica. Altrimenti rimane chiuso, anche per amici, amanti o parenti, senza che la presenza del portiere apra uno spiraglio ad una ragionevolezza pur blandamente umana. Con Simon abbiamo visto le foto di suoi viaggi, alcune di Varanasi, fatte dal balcone della casa del dharma inondata dai raggi di sole. Non ho potuto non emozionarmi, sembrava di risentire i tanti rumori, gli odori, sembrava di essere ancora lì, a due passi dal centro di Smriti-yoga-teacher, di fianco ad una stalla urbana, con vista su un Gange vissuto oggi come 5000 anni fa. Sembrava ancora di essere nel passato e in uno strano, parzialmente anacronistico presente, in una dimensione che ha trasceso le speculazioni temporali, la distinzione tra logico ed illogico, tra si e no ed ancora una volta, pur nell’apolllinea ed esistenzialmente mortifera Cambridge, ho sentito di essere inequivocabilmente vivo, pronto per molti ritorni e, di tanto in tanto, per l’eccitazione di qualche nuova partenza.