TRANSUMANZA

QUESTO BLOG E' IN VIA DI SUPERAMENTO. NE STIAMO TRASFERENDO I POST MIGLIORI SUL SITO DI VIVEREALTRIMENTI, DOVE SEGUIRANNO GLI AGGIORNAMENTI E DOVE TROVATE ANCHE IL CATALOGO DELLA NOSTRA EDITRICE. BUONA NAVIGAZIONE!

sabato 28 agosto 2010

Bal Ashram (Varanasi): Newsletter Agosto 2010.

I lettori di Vivere altrimenti che non conoscono la realta' del Bal Ashram sono invitati a visitare la sezione rispettiva del sito gemellato per poi leggere la seguente newsletter con maggior cognizione di causa.

Cari amici,
Ogni anno la stagione dei monsoni, con la sua forza rigenerante, ci regala anche la possibilità di incontrare nuove creature. Le piogge sono ora copiose ed il fiume è tornato a vivere. Quest'anno sono arrivati anche i coccodrilli!
Lo scorso lunedì mattina alle cinque, impegnati nelle pulizie mattutine, la voce di Vishvanath (uno dei ragazzi più grandi), è riecheggiata improvvisamente per tutto l'ashram, immerso nel silenzio: “magarmacch – coccodrillo”. In un batter d'occhio eravamo tutti sulle scalinate dei nostri orti, ammutoliti, ad osservare il pacatissimo coccodrillo , immobile di fronte a noi, inabissarsi e riaffiorare ritmicamente nel fiume.
Nessuno ne aveva mai visto uno in città; nessuno a memoria d'uomo.
Il pensiero di tutti è stato quello di una “benedizione” elargita dal fiume. Il fiume, la dea Ganga , è rappresentato infatti da una donna, trasportata da un coccodrillo, a simbolo della fertilità delle acque e della capacità di trasformare positivamente forze considerate indomabili e pericolose.
In poche ore, sparsasi la voce del coccodrillo presente di fronte alle nostre scalinate, una folla di persone ha cominciato ad accalcarsi, richiamando anche l'attenzione dei media a caccia di scoop e notizie. Lo stupore reverenziale che aveva coinvolto tutti i bambini e noi dell'ashram ha lasciato il posto ad immediati tentativi di cattura dell'animale (fortunatamente senza buon esito) e scene di immotivata paura. In questa occasione abbiamo potuto apprezzare il comportamento rispettoso e le osservazioni responsabili ed intelligenti dei bimbi dell'ashram.
Nonostante lanci di pietre (da noi interrotti), urla e simili, il coccodrillo non si è mai allontanato dal perimetro esterno dell'ashram, continuando a nuotare avanti ed indietro, stazionando di fronte agli scalini che conducono dentro al nostro giardino. Così come era improvvisamente apparso al mattino, se ne è andato silenziosamente il giorno successivo, immergendosi senza più farsi rivedere. I nostri bimbi, durante il meeting serale, hanno poeticamente concluso che la dea Ganga è venuta a trovarli per un giorno, a visitare il loro ashram e ricordare loro di rispettarla, non inquinarla e ringraziarla sempre per tutti i doni che elargisce.
I mesi della stagione delle piogge sono i migliori per piantare nuovi alberi e dedicarsi ai lavori dei campi.

A fine luglio insieme a Girishji, il responsabile del progetto dell'eco park abbiamo organizzato una bellissima domenica con i bambini dell'Anjali school.
Dopo pranzo siamo partiti in barca per raggiungere l'altra sponda e dedicarci per l'intero pomeriggio a piantare 150 alberi tra manghi, limoni, guava, neem, e papaye.
La giornata è proseguita fino a tarda ora con una visita alla stalla, alcuni giochi di gruppo, la cena ed il rientro a casa con l'emozione di guadare una parte del fiume a piedi avvolti dal buio notturno (non c'era ancora traccia del coccodrillo!). Visto il successo della giornata si è deciso che sarebbe stato bello poter proporre la stessa esperienza ad altre scuole organizzando delle lezioni su “ambiente ed inquinamento” e poi coinvolgendo gli studenti a piantare alberi nei giardini delle loro scuole, così grigie e cementificate. Andrea e Lisa, due biologi italiani, sono tornati a trovarci anche quest'estate e prima del loro arrivo hanno preparato lezioni e poster per condividere le loro conoscenze con gli studenti. La prima scuola in cui abbiamo organizzato il loro intervento è stato un college femminile. Con sorpresa di noi tutti non c'erano gli studenti della scuola ad aspettarci ma un gruppo di cadetti femminili dell'esercito indiano in pieno addestramento militare (organizzato nei presidi della scuola). Nonostante l'inaspettato auditorium la giornata è stata molto sentita e la partecipazione molto attiva.
Per il secondo intervento siamo tornati invece
dagli amici di Sarnath, dove Andrea, ha parlato agli studenti (dalla classe VII alla XII) di inquinamento del suolo, dell'acqua e dell'aria, invitando tutti a riflettere sulle nostre singole responsabilità nonché semplici azioni quotidiane che possono fare la differenza. La discussione è stata accompagnata da diapositive e tradotta simultaneamente in hindi dal professore di scienze del progetto alice, che ha arricchito l'esposizione apportando esempi e riferimenti alla vita del villaggio, da cui la maggior parte degli studenti proviene.
Nel contempo cerchiamo di concretizzare ciò che idealmente auspichiamo per l'ambiente nella terra dell'eco park. Due nuove mucche sono arrivate incrementando la produzione del latte a 100 lt al giorno. La bufala ha partorito e gli orti cominciano a dare le prime verdure biologiche.
Le donne del progetto shakti hanno lavorato molto per poter presentare al meglio i prodotti dell'eco park e gli articoli che hanno imparato a confezionare, nel giorno della celebrazione di Guru Purnima, lo scorso 25 luglio.
Hanno allestito uno stand, al centro del giardino dell'ashram. Lo spazio ben visibile è stato visitato da tante persone e per tutto il giorno sono state impegnate a mostrare il loro lavoro.
Gli articoli più apprezzati: l'olio di semi di mostarda direttamente dai nostri campi, borse ed astucci di stoffa. Nituji, la sarta che coordina i corsi si è dedicata con tanta dedizione e cura per la preparazione di questo evento.
Al momento non sono partiti nuovi corsi a causa delle piogge e dell'impraticabilità della maggior parte delle strade. Le “anziane” del progetto shakti sono impegnate nel preparare le uniformi dei nuovi iscritti alla scuola.
Abbiamo riservato parte dei fondi raccolti per la scuola per le emergenze sanitarie. Da quando siamo arrivati abbiamo avuto tanti casi di febbre tifoide sia tra i bambini che tra gli insegnanti.
Sono stati necessari ricoveri ospedalieri e spese mediche prolungate. Abbiamo deciso di vaccinare alcuni bambini per il tifo, previo consenso dei genitori.
Sempre causa intemperie, la classe nursery non è ancora del tutto terminata; è agibile ed i bambini vi fanno già lezione ma deve ancora essere dipinta e completata negli interni.
Abbiamo deciso di acquistare dei solidi banchi e panche per le classi 3°, 2° e 1°. L'anno scorso avevamo ricevuto in regalo dei banchi di plastica e finto legno da un istituto privato di ripetizioni che era fallito. Più della metà si erano rotti dopo poche settimane ed erano anche divenuti pericolosi perché instabili. E' stata una spesa importante (50 euro per 1 banco dove possono sedersi 4 bambini + la panca). Ne abbiamo acquistati 21 pezzi; sono in legno massiccio e ferro. Dureranno per sempre!

E vi salutiamo caramente con un'immagine che vi illustra come nella vita comunitaria bisogna imparare a condividere ogni cosa con chiunque! A voi un esempio: il tiro del tappeto!
Chi se lo conquisterà? Moti, ancora cucciola (non nelle dimensioni) o gli intrepidi Soham e Suraj?
A presto,
Camilla e Lorenzo, Aghor Foundation, Varanasi - India

giovedì 26 agosto 2010

Newsletter della Comunita' di Psicosintesi Hodos (Agosto 2010).

La Comunità Hodos è costituita da un gruppo di persone che, all'interno di una prospettiva psicosintetica, intendono utilizzare e promuovere una serie di strumenti orientati alla progressiva integrazione delle molteplici parti del nostro Io, allo sviluppo della nostra unicità e della nostra creatività e, in definitiva, alla piena espressione del nostro potenziale umano.
In particolare, i gruppi, i seminari e i ritiri di Hodos si servono di una varietà di metodi, tutti orientati al motto della psicosintesi «conosci, possiedi, trasforma te stesso»: drammatizzazioni, meditazioni, esercizi bioenergetici, tecniche di coppia come lo «specchio», analisi di gruppo e così via.
Per maggiori informazioni visita il nostro sito www.psicosintesi.org
Puoi anche iscriverti al Blog di Fabio Guidi, dedicato all'applicazione della Psicosintesi nella vita quotidiana. Riceverai una mail ogni volta che sarà pubblicato un post.
Su un piano più teorico, approfondisci le tematiche psicosintetiche attraverso la nuova rubrica di Fabio Guidi sul portale www.riflessioni.it (magari iscrivendovi alla newsletter del sito per ricevere gli aggiornamenti).
Per iscrizioni o comunicazioni: info@psicosintesi.org

autunno 2010, Gruppi di Psicosintesi

I Gruppi di Psicosintesi costituiscono l'attività di base del nostro Lavoro, in quanto strumento potente di osservazione e studio di sé.

I prossimi seguono il seguente calendario:

settembre 25-26
ottobre 30-31
novembre 27-28

I Gruppi , vere e proprie immersioni nel lavoro psicosintetico, intendono offrire una reale concreta «esperienza» della Psicosintesi e non una semplice informazione teorica, che spesso costituisce l'alibi migliore per non lavorare veramente su di sé.
All'interno di questi gruppi sono utilizzati dramma-tizzazioni, esercizi bioenergetici, meditazioni e diverse altre tecniche di lavoro individuale, di coppia o di gruppo, mantenendo sempre l'attenzione su ciò che avviene 'qui e ora'. Segue l'elaborazione del materiale emerso secondo la prospettiva psicosintetica.
Si ricorda che il numero dei partecipanti è limitato e che è pertanto consigliabile, se interessati, prenotare per tempo. Maggiori informazioni possono essere richieste tramite e-mail.

Aforismi sul «Lavoro»

G. I. Gurdjieff è un autore essenziale per afferrare determinati princìpi del Lavoro psicosintetico. In queste newsletter verranno offerti alcuni passi che illustrano il suo pensiero in proposito.
Gurdjieff aveva stabilito il suo Istituto per lo Sviluppo Armonico dell'Uomo al Prieuré a Fontainbleu-Avon, nei pressi di Parigi. Nella Study House dell'Istituto era appeso uno scritto da cui sono estratti i seguenti aforismi, riproposti a beneficio di coloro che vogliono penetrare più attentamente lo spirito del Lavoro del maestro sub-caucasico.

«1. Ricorda te stesso sempre e ovunque.

2. Se non sei dotato di uno spirito critico, la tua presenza qui è inutile.

3. La più grande conquista per un uomo è quella di essere capace di fare.

4. Più sono difficili le condizioni di vita, più sono buoni i risultati del Lavoro, sempre ammesso che ti ricordi il Lavoro.

5. Qui noi possiamo soltanto dare una direzione e creare alcune condizioni, ma non aiutare.

6. Ricordati che sei venuto qui perché hai capito la necessità di lottare contro te stesso - soltanto contro te stesso. Sii grato dunque a tutti coloro che te ne forniscono l'occasione.

7. Sappi che questa casa può essere utile solo a coloro che hanno riconosciuto la propria «nullità» e credono nella possibilità di cambiare.

8. Giudica gli altri in base a te stesso, e raramente ti sbaglierai.

9. Il sistema migliore per essere felici in questa vita consiste nella capacità di ‘considerare’ esteriormente sempre, e interiormente mai.

10. Tieni conto di ciò che la gente pensa di te, e non di ciò che dice.

11. Aiuta soltanto chi non è ozioso.

12. Dormi poco senza rimpianti.

13. Tieni presente che qui il lavoro non è fine a se stesso, ma è solo un mezzo.

14. Solo la sofferenza cosciente ha significato.

15. Se già sai che è male, e lo fai ugualmente, commetti un peccato cui è difficile rimediare.

16. Rispetta ogni religione.

17. Può essere giusto soltanto colui che sa mettersi al posto degli altri.

18. Non giudicare un uomo dalle parole altrui.

19. ‘Ama’ quello che non ti piace.

20. Soltanto chi può vegliare sul bene degli altri meriterà il proprio bene.

21. Insegnando agli altri, imparerai tu stesso.

22. Beato colui che ha un'anima. Beato chi non l'ha. Ma sventura e dolore per chi ne ha solo l'embrione. »

mercoledì 25 agosto 2010

LUNA PIENA -- mercoledì 25 agosto 2010 -- da Ajahn Munindo

Non c'è fuoco pari al desiderio
né malattia peggiore dell'odio
né pena che opprima come l'attaccamento
né gioia pari alla pace della libertà.

Dhammapada strofa 202

Avidità, avversione e confusione distorcono il nostro pensiero. La
brama è attraente; siamo spinti a seguirla. Anche l'odio può sembrare
attraente; ci spinge ad agire da impulsi dannosi. L'attaccamento ha
radici nella falsa credenza che aggrapparci ci renda più felici.
Questi sono i tre veleni. In verità, la brama brucia, l'odio porta
alla depressione, e gli attaccamenti sciupano quel che c'è di bello
nella vita. Se addestriamo la mente a vedere attraverso l'apparenza
esterna delle cose, ci avviciniamo alla verità di questi veleni. Per
quanto possa sembrarci una tentazione seguire i forti impulsi del
desiderio, una comprensione più profonda ci incoraggia a trattenerci e
ad aspettare l'incomparabile gioia e pace della liberazione.

Con Metta

Bhikkhu Munindo

(Ringraziamenti a Chandra per la traduzione)

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Santacittarama
Monastero Buddhista
02030 Frasso Sabino (RI) Italy

Tel: (+39) 0765 872 186 (7:30-10:30, tutti i giorni eccetto lunedì)
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www.dhammatalks.org.uk (audio files)

La consapevolezza nella quarta via.

Di seguito un contributo molto interessante, per quanto impegnativo, dal'amico Alessandro Staiti, insegnante di Hatha Yoga ed esperto del maestro caucasico George I. Gurdjieff:

GEORGE I. GURDJIEFF E LA QUARTA VIA

“A coloro che si interessavano di queste cose, era noto da diversi anni che sarebbe arrivato in Occidente un maestro straordinario nella persona di un uomo che si reputava avesse avuto accesso a fonti di conoscenza negate ad ogni precedente esploratore occidentale” . Così scriveva John G. Bennett, personaggio di molteplice ingegno (ingegnere, filosofo, matematico, linguista e a sua volta ricercatore e insegnante di metodi per la conoscenza di se stessi, tra i quali quelli della Quarta Via), nel 1949, quando il suo maestro George Ivanovitch Gurdjieff, ormai ottantatreenne, era prossimo alla morte. “Che egli sia un uomo di grande conoscenza e anche di grandi poteri non può esser messo in dubbio da chiunque vi sia entrato in contatto personalmente. La sua evidente prontezza nel soccorrere i bisogni fisici e nondimeno quelli spirituali di coloro che si recano da lui per essere aiutati è sufficientemente comprovato dall’amore nei confronti dei suoi seguaci. La sua forza nelle più estreme sofferenze fisiche e la sua indifferenza verso le condizioni esterne della vita - spesso dolorose sotto ogni punto di vista - sono indicazioni di una forza interiore che comunque può essere percepita in ogni cosa che faccia. Più di questo non v’è bisogno di dire al momento presente”.
Nato nel Caucaso intorno al 1866 (nell’odierna Russia) da un’antica famiglia greca emigrata più di cento anni prima dalle colonie greche dell’Asia Minore, Gurdjieff ebbe l’opportunità di incontrare uomini straordinari dai quali acquisì la convinzione che qualcosa di vitale importanza mancava nella considerazione dell’uomo e del mondo nella letteratura e nella scienza europee. Era stato indirizzato agli studi di medicina e di teologia, ma l’insoddisfazione che provava per i limiti di quel tipo di educazione lo condusse a cercare altrove e per proprio conto. Con un gruppo di “cercatori della verità” viaggiò per molti anni attraverso l’Africa, l’Asia e l’Estremo Oriente, raggiungendo luoghi la cui esistenza è insospettabile anche per i più accurati esploratori. Dove realmente riuscì a spingersi non è possibile dirlo, e anche quel che lui stesso rivela nel volume “Incontri con Uomini Straordinari” è velato a tal punto da metafore che le vaghe coordinate geografiche risultano impenetrabili. Nel 1922 fondò l’Istituto per lo Sviluppo Armonioso dell’Uomo al Castello del Prieuré di Fontaineblau, nei pressi di Parigi. Qui il “lavoro su se stessi” da lui proposto prese una pianta stabile attirando, tra gli altri, diversi intellettuali e artisti europei. Fondò una vera e propria comunità indipendente con coltivazioni, animali, svariate attività lavorative e speciali classi di esercizi per la “trasformazione delle energie” che consistevano nei famosi “movimenti” tratti da danze sacre e in conferenze sugli aspetti teorici del “lavoro”. Nel 1924 organizzò in America un’altra branca dell’Istituto, dando per l’occasione una dimostrazione dei suoi “movimenti” accompagnati al pianoforte dalle musiche sacre elaborate assieme al musicista russo Thomas De Hartmann. Qui divennero suoi seguaci scrittori come Margareth Anderson , filosofi come Alfred Orage, che in quegli anni aveva fondato la rivista letteraria “The New Age”, architetti come Frank Lloyd-Wright. Al ritorno rimase gravemente ferito (ma miracolosamente vivo) in un terribile incidente d’auto che lo costrinse ad interrompere il lavoro pratico al Prieuré per intraprendere la trasmissione scritta delle sue idee, che avrebbe preso poi la forma di opere come “I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote” , il già citato “Incontri con Uomini Straordinari” e “La Vita Reale” . Durante la seconda guerra mondiale continuò ad insegnare con gravi difficoltà ricevendo gruppi di allievi nel suo appartamento di Rue des Colonels Rénard; poi improvvisamente nel 1948 decise di riprendere l’attività più estesa: purtroppo un anno dopo sarebbe stato fermato dalla morte.
In cosa consiste esattamente il lavoro della “Quarta Via” e perché questa scuola viene chiamata così? Una spiegazione subito a portata di mano è quella che lo stesso Ouspensky riporta per bocca di Gurdjieff nel suo “Frammenti di un insegnamento sconosciuto” .
Secondo Gurdjieff le “vie” tradizionalmente note per lo sviluppo spirituale erano inadatte alla vita dell’uomo occidentale, soprattutto perché partivano tutte dal passo più difficile: il completo ritiro dal mondo esterno, prevedendo inoltre molti altri tipi di rinuncia.
La prima via è la “via del Fachiro” (la n.1), e si esplicita sull’acquisizione della volontà e la trasformazione delle energie sulla base di intensi sacrifici fisici. Nel famoso linguaggio obiettivo, cui spesso Gurdjieff fece riferimento, alla via del Fachiro viene attribuito il numero 1 poiché tutto ciò che si basa su una realtà fisica è una realtà incontrovertibile. Una mano è una mano, non ha un opposto. Dualismo, invece, che caratterizza essenzialmente il linguaggio delle emozioni: la “Via del Monaco”, la n. 2, è centrata sulle contrapposizioni emozionali, la lotta tra il bene il male, tra peccato e santità, tipiche della vita di clausura. La “Via dello Yogi” (n.3 - poiché nel pensiero si realizza la tripartizione tesi-antitesi-sintesi, da non confondere con il ben noto indirizzo hegeliano), che ha il suo centro di gravità nello sviluppo di una “supercoscienza” attraverso tecniche mentali.
La Quarta Via si propone, invece, come un lavoro integrato sulla totalità dell’essere umano. “La quarta via non richiede che ci si ritiri dal mondo,” - dice Gurdjieff - “non esige la rinuncia a tutto ciò che formava la nostra vita. Essa comincia molto più lontano che non la via dello yogi. Ciò significa che bisogna essere preparati per impegnarsi nella quarta via e che questa preparazione deve essere acquisita nella vita ordinaria, essere molto seria e abbracciare parecchi aspetti differenti.” Un lavoro, dunque, che permette al comune cittadino occidentale di “vivere nel mondo ma non essere del mondo”, di continuare la normale vita quotidiana servendosene come strumento per risvegliare la propria consapevolezza e lavorare su se stesso. Per Gurdjieff il “buon padre di famiglia”, colui capace di essere responsabile di sé, dei propri cari e del proprio lavoro, è l’uomo n. 0, colui che può iniziare a lavorare su sé stesso nel modo più naturale: non ha strane idee sui corpi astrali, mentali e causali, non fa strane tecniche di respirazione (spesso realmente pericolose), non si vanta di interessarsi di dottrine esoteriche. La nostra educazione è incompleta: fisico, emozioni e intelletto sono insufficientemente educati e soprattutto non coordinati tra loro: in questo stato l’uomo non ha la possibilità di attingere al proprio vero potenziale ed è incapace di percepire l’unico vero tempo esistente: il Momento Presente.
L’esistenza è ridotta così ad una sorta di sonno ipnotico, tanto che si è inconsapevoli perfino nel cosiddetto stato di veglia. In questa situazione così disperata non solo vengono lasciate senza realizzazione le possibilità latenti insite nell’individuo, ma conseguentemente l’intera storia collettiva dell’umanità viene condotta a tragici traguardi di “sonno della coscienza” che si incarnano in guerre e distruzioni. In sostanza, come più tardi riuscirà a concretizzare lo stesso Bennett nei suoi insegnamenti che continuano fino ai nostri giorni, nonostante la sua scomparsa nel 1974, tre sono gli aspetti fondamentali che devono essere presi in considerazione: le funzioni, cioè l’agire, l’aspetto funzionale dell’essere umano nella sua accezione più generale; la volontà, la capacità di agire di propria iniziativa senza lasciarsi trasportare dalle condizioni esterne della vita; l’essere, quel “qualcosa” che può anche continuare a vivere dopo la morte del corpo fisico se durante l’esistenza terrena è stato espletato un appropriato lavoro di “ricordo di se stessi”: ci si è preoccupati, insomma, di sviluppare la consapevolezza. Ora, se un tale “lavoro” viene portato avanti con serietà sicuramente vi è un rafforzamento delle capacità individuali (dell’essere), e conseguentemente ne escono rafforzate sia la volontà che l’azione. Ma proprio a questo punto va esercitata la massima attenzione perché l’ego non smette mai di sedurre con astute pretese direttive, con smanie da protagonista. Dunque non è nella ipertrofia dell’ego che questo sviluppo di sé deve trovare sbocco. Invece, questo lavoro ha dato i suoi frutti più autentici quando fa scoprire al sincero ricercatore il segreto dell’abbandono: abbandono a ciò che viene percepito come una realtà “superiore”. La volontà personale, una volta rafforzata e organicamente sviluppata, deve lasciar andare ogni pretesa di seducente autorità, ogni rigida posizione e tecnica per abbandonarsi alla Volontà Sovrapersonale: quella che per mistici e religiosi è la volontà di Dio, per altri semplicemente la volontà, l’intelligenza che governa il Creato; e per altri ancora Etica Universale. In altre parole, solo entrando in contatto profondo con il proprio Sé reale è possibile riconoscere quei valori essenziali che sottendono l’amore proveniente dalla Vita.

ATTENZIONE E CONSAPEVOLEZZA NELLA QUARTA VIA

Le differenze e le innovazioni della Quarta Via rispetto, ad esempio, ad una disciplina alquanto nota in Occidente, come lo Yoga, non risiedono soltanto nell’assenza di esercizi di respirazione o nella non obbligatorietà della dieta vegetariana. Vi è qualcosa di più sottile ed è la capacità di dirigere e soprattutto dividere l’attenzione, aspetto totalmente sconosciuto allo Yoga, almeno a quei tipi di Yoga insegnati in Occidente. Questo, in realtà, è uno dei temi fondamentali della Quarta Via, una condizione indispensabile per lo sviluppo organico della consapevolezza.
Fin dall’antichità è apparso chiaro che gli animali si differenziano dalle piante per la loro capacità di movimento e di spostamento. E’ evidente, infatti, che una pianta non può andare a caccia per cercarsi nutrimento, né schivare un colpo, né nascondersi ai suoi persecutori. Allo stesso modo l’uomo probabilmente differisce dalla maggior parte degli altri animali per la sua capacità di “fare”, cioè di agire coscientemente. L’animale fa, ma non riflette su quanto sta facendo. Mangia, ma contemporaneamente non riesce ad astrarsi per dire a se stesso: “sto mangiando”. Si muove secondo quella forza meccanica/biologica imperiosa che definiamo istinto e che è alla base della legge della conservazione della vita. Prova piacere, dolore, gioisce e soffre come ogni essere vivente: ma, molto probabilmente, non può interrogarsi (o - immaginiamo almeno - l’articolazione della sua domanda sarà molto differente dalla nostra) sul perché tutto questa debba avvenire. Tutto avviene in lui, attraverso di lui. E sebbene, in qualche misura, qualcuno degli animali “superiori” possa dare l’impressione di una forma di consapevolezza, pur volendo supporre che lo sia, sarà di un grado piuttosto ridotto rispetto al potenziale insito nell’essere umano, o forse di tutt’altra qualità, tanto - ad esempio - da non poter dare vita a sistemi di comunicazione elaborati e complessi come il linguaggio verbale. Né, ancora, ad un vero e proprio sistema culturale. Parliamo di potenziale proprio perché secondo le autentiche vie per la conoscenza di se stessi, l’uomo comune non è veramente consapevole e deve lottare strenuamente contro le forze “meccaniche” (diceva Gurdjieff; biologiche, psicologiche, sociali, politiche, in altri termini “condizionamenti”, diremmo noi oggi) che governano la sua vita per conquistare la coscienza e con essa l’appellativo di “essere umano”; che non può definire, dunque, chi semplicemente conduce la propria esistenza nello “stato di veglia” comunemente inteso.
Gurdjieff spesso ripeteva che l’uomo moderno è costantemente addormentato - anche quando dice di essere sveglio - e che per poter vedere la Realtà deve svegliarsi dal proprio sonno meccanico. Ripete un concetto espresso anche dagli antichissimi insegnamenti dello Yoga, in altra forma. Lì si parla del “Velo di Maya”, uno strato di menzogna che è steso sugli occhi di colui che non è iniziato, che vive avvolto ancora in un mondo di percezioni soggettive confuse e staccate completamente dalla realtà obiettiva. Così anche nella tradizione cristiana: nel Vangelo spesso Gesù esorta gli apostoli a non dormire.
“L’uomo è colui che può «fare», ma tra gli uomini ordinari e anche tra quelli considerati straordinari non ce n’è uno che possa «fare». In essi tutto, dall’inizio alla fine, «si fa». Non c’è nulla che essi siano in grado di «fare».” - afferma G.I. Gurdjieff nel libro “Vedute sul mondo reale” . E continua: “L’uomo è un essere multiplo. Solitamente parlando di noi stessi diciamo «io» faccio questo, «io» penso quello, «io» voglio fare quell’altro. Ma è un errore. Questo «io» non esiste o, meglio, in ciascuno di noi ci sono centinaia, migliaia di piccoli «io». I nostri «io» sono contraddittori, ecco il motivo del nostro funzionamento disarmonico. Ordinariamente viviamo soltanto con un’infima parte delle nostre funzioni e della nostra forza, perché non ci rendiamo conto che siamo macchine e non conosciamo la natura e il funzionamento del nostro meccanismo. Noi siamo macchine. Siamo totalmente condizionati dalle circostanze esteriori. Tutte le nostre azioni seguono la linea di minor resistenza alla pressione delle circostanze esterne. Fatene l’esperienza: potete comandare le vostre emozioni? No. Potete cercare di sopprimerle o di cacciarne una con un’altra. Però voi non potete controllarle: al contrario esse controllano voi”.
Per Gurdjieff esistono ben quattro stati di coscienza diversi e possibili per l’uomo. L’uomo ordinario solitamente vive nei due stati di coscienza più bassi e i “due superiori gli sono inaccessibili e benché egli possa averne conoscenza a sprazzi, è incapace di comprenderli e li giudica dal punto di vista dei due stati di coscienza inferiori che gli sono abituali” . Continua Gurdjieff: “Il primo, il sonno, è lo stato passivo nel quale gli uomini trascorrono un terzo e sovente anche la metà della loro vita. Il secondo, nella quale passano l’altra metà della loro vita, è quello stato in cui camminano per le strade, scrivono libri, discutono soggetti sublimi, si occupano di politica, si ammazzano a vicenda: è uno stato che considerano attivo e chiamano «coscienza lucida» o «stato di veglia della coscienza». Queste espressioni di coscienza lucida o stato di veglia della coscienza sembrano essere state formulate per scherzo, specialmente se ci si rende conto di ciò che dovrebbe essere una «coscienza lucida» e di ciò che è in realtà lo stato nel quale l’uomo vive e agisce. Il terzo stato di coscienza è il ricordarsi di sé, o coscienza di se, coscienza del proprio essere. E’ generalmente ammesso che noi possediamo questo stato di coscienza o che possiamo averlo a volontà. La nostra scienza e la nostra filosofia non hanno visto che noi non possediamo questo stato di coscienza e che il nostro desiderio è incapace di crearlo in noi, per quanto ferma possa essere la nostra decisione. Il quarto stato di coscienza è la coscienza obiettiva. In questo stato di coscienza l’uomo può vedere le cose come sono. Talvolta, negli stati inferiori di coscienza, egli può avere dei barlumi di questa coscienza superiore. Le religioni di tutti i popoli contengono testimonianze sulla possibilità di tale stato di coscienza, che viene definito «illuminazione», o con altri differenti nomi, ma che non può essere descritto con le parole.” Questo breve passo, scritto alla fine degli anni Quaranta, offre spunti molto interessanti per comprendere quanto poco chiari siano ancora oggi i concetti di coscienza e consapevolezza, non solo al livello della scienza e della filosofia, ma della cultura più ordinaria e diffusa. Nessuno sa ancora ben definire cosa sia realmente la coscienza.
Questo aspetto della questione potrà essere compreso altrettanto approfonditamente se lo si osserva da una differente angolazione. Secondo un insegnamento molto antico, l’uomo può, più o meno facilmente, fare esperienza di almeno tre “correnti psichiche” o livelli dell’attenzione. La prima è quella che ci permette di concentrarci su ciò che stiamo facendo. E’ l’attenzione nel suo grado più elementare, ma comunque efficace. Il porre attenzione unicamente su ciò che stiamo facendo, astraendoci da tutto ciò che ci circonda, la vera e propria concentrazione. Esempio: pongo attenzione su ciò che sto scrivendo. La seconda corrente psichica è quella che può essere definita consapevolezza ordinaria: è l’uomo che si osserva durante l’azione. Possiamo dire piuttosto agilmente a noi stessi, mentre stiamo scrivendo, “io sto scrivendo”. La terza corrente psichica è invece quella facoltà ulteriore che ci permette di osservarci mentre osserviamo noi stessi fare una cosa. Per comprendere questa funzione, di cui normalmente non facciamo esperienza, possiamo ricorrere all’esempio dello stato di leggera ubriachezza, all’essere “brilli”. A molti sarà sicuramente capitato una volta nella vita di aver “alzato un po’ il gomito” e di essersi sentiti sdoppiati, a tal punto da avere la netta sensazione di essere gli spettatori di se stessi: è un inizio di osservazione di se stessi dall’esterno, come se “qualcun altro” in noi stesse assistendo a ciò che noi stessi stiamo facendo, dicendo o sentendo. E’ uno stato incredibilmente interessante - a partire dal fatto che ci pone di fronte all’ulteriore domanda: “chi sta osservando chi, o cosa?” - cui solitamente non viene data molta importanza (se non nel vecchio, abusato proverbio “in vino veritas”, significando che l’alcol disattiva la “protezione” dei freni inibitori e fa venire a galla le più intime pulsioni) o che viene ben presto superato dalla degradazione dell’attenzione provocata dall’alcol (in questo stato diversi soggetti, molto infastiditi dal fatto di osservarsi dall’esterno, cominciano a provare un forte senso di nausea), che mostra un’altra gradazione dell’attenzione e della nostra coscienza.
Questa terza corrente psichica, che mediante un accurato esercizio può essere attivata volontariamente e senza l’ausilio di droghe, viene definita «auto-osservazione» oppure «osservazione di sé». Esiste poi una quarta corrente psichica, con la quale possiamo avere consapevolezza contemporaneamente di noi stessi e dell’intero ambiente che ci circonda, e che si avvicina suggestivamente a quello stadio di coscienza che Gurdjieff definiva “coscienza obiettiva”. Ci fermiamo qui soltanto per comodità, per restare nel concreto, cioè più o meno in un campo in cui con un poco di astrazione ci viene agevole comprendere ciò di cui stiamo parlando. Ma in realtà, sempre secondo questi antichi insegnamenti, sembra proprio che i vari gradi di coscienza siano un po’ come le famose matrioske, le bambole russe che stanno una dentro l’altra: si potrebbe continuare quasi all’infinito, senza immaginare quale ulteriore strato comprenda quello in cui ci troviamo.
Comunque, secondo questo insegnamento, pervenuto a noi oggi soltanto per tradizione orale e senza alcuna definizione, la consapevolezza e la coscienza sarebbero due gradazioni di funzioni distinte all’interno dell’essere umano. La consapevolezza sarebbe rivolta maggiormente all’ambito individuale: è l’esperienza soggettiva di se stessi, non importa quanto consapevoli della “corrente degli eventi” nella quale siamo inseriti; è dunque un’attività legata preminentemente alla mente, alla personalità, non necessariamente coadiuvata da altri fattori. La coscienza ha un significato molto più esteso, una funzione che origina da un funzionamento coordinato delle varie parti componenti la totalità dell’essere umano e che ci permette di percepire contemporaneamente noi stessi, il nostro posto all’interno della corrente degli eventi e il mondo da un punto di vista oggettivo, senza alcuna proiezione o riduzione personale. Tale accezione riprende evidentemente l’originale significato latino della parola coscienza: “cum - scio”, “so insieme”.
A tal proposito andiamo a leggere cosa ne pensa un illustre allievo e collaboratore di John Bennett, tale Anthony Blake, fisico quantistico, nella sua conferenza dal titolo “Solioonensius”, tenuta all’Open Center di New York il 12 agosto 1995: “Gurdjieff descrisse la coscienza, questo potere residuo rimasto ancora in noi stessi, una delle porte divine, come il sentire tutto ciò che si può sentire, tutto in una volta. In modo simile, la coscienza è come conoscere tutto ciò che si può conoscere, tutto in una volta. Come parola in se stessa, «coscienza» significa «conoscere insieme»”.
A questo punto è necessaria una digressione, indispensabile per poter comprendere perché Gurdjieff insistesse tanto sulla questione della “meccanicità” e della possibilità di diventare “coscienti”. Se ci atteniamo alla lettera alle parole di Gurdjieff, infatti, discorrendo di coscienza obiettiva, di evoluzione e così via, si rischia molto facilmente di cadere in affascinanti ma -ahimé - illusorie e pericolose mitologie. Si crea, infatti, una dicotomica lontananza tra lo stato di coscienza sublime, proprio del “maestro illuminato” e la miserabile incoscienza propria dell’ “allievo meccanico” tale che qualsivoglia possibile lavoro su se stessi assume i connotati di un’impresa ciclopica e pressoché impossibile, ma proprio per questo seducente nella sua irraggiungibilità. Oltremodo un comodo alibi per rifiutare a priori qualsiasi possibilità di “illuminazione”, proprio come accadde al povero Ouspensky che non credette a se stesso, né al proprio insegnante, quando Gurdjieff gli dichiaro che da quel momento lui poteva “vedere”. Ora, questo tipo di leggende crea modelli totalmente deformati, come quello del maestro evolutissimo, supercosciente, che cammina a venti (o più!) centimetri da terra, levita a piacimento, si astiene da ogni bisogno fisico (che inferno!) ed è totalmente in possesso di ogni segreto sulla Creazione. Dovrebbe apparire piuttosto evidente che nessun essere umano vive 24 ore su 24 in uno stato di piena coscienza, né ne ha alcun bisogno.
Continua Blake nella sopracitata conferenza “Solioonensius”: “Abbiamo questo tipo di pensiero che dice: «Essere consapevoli è buono. Essere più consapevoli è meglio. Perciò il massimo è essere assolutamente consapevoli sempre.» Ora, questo è effettivamente un nonsenso, perché si ha bisogno di essere consapevoli quando si ha bisogno di essere consapevoli. Questa consapevolezza più profonda che è possibile per noi è una sostanza meravigliosa e preziosa. Immaginate: è più preziosa dell’uranio, del plutonio, dell’oro e dei diamanti. Perché dovrebbe essere disponibile per noi? Soltanto se siamo completamente pazzi e cominciamo a considerare noi stessi completamente separati dal resto della natura e dell’universo. Possiamo anche pensare che acquisire più e più di questa sostanza soltanto perché ci aggrada sia un segno di pazzia cosmica. Ancora, qui è dove viene messa in risalto una parte del quadro cosmologico. Questa sostanza ci verrà data soltanto se può essere utilizzata per uno scopo che è, per così dire, «obiettivo». Non è soltanto per noi. Aumentare la nostra consapevolezza funziona soltanto nel contesto dell’intero modello di trasformazione. Se poteste iniziare a vedere ciò sarebbe meraviglioso. Andreste contro quella sottile tentazione che si ha quando si diventa più svegli e che cattura le proprie emozioni e i propri desideri. E’ vero: è così meraviglioso, e il contrasto di non avere questo stato è così terribile! E’ estremamente difficile andare oltre - per usare il gergo gurdjieffiano - «l’identificazione» con uno stato di coscienza”.
Vi sono in giro per il mondo istruttori spirituali molto carismatici, sinceri servitori della missione che hanno deciso di compiere, e tali rare persone hanno un’intensità della loro presenza e del modo di osservare il mondo molto differente da quella ordinaria. Ciò può essere percepito come un fatto concreto perfino dal comune osservatore. Purtroppo anche tali insegnanti poco possono fare contro un altro fenomeno molto diffuso, che si basa sull’emulazione del comportamento del proprio insegnante. Ciò dovrebbe limitarsi, in realtà, esclusivamente ad uno stato iniziale, propedeutico allo sviluppo del proprio modo di fare le cose. Invece accade spesso che l’allievo continui tale deleteria imitazione a tal punto da generare una vera e propria identificazione nel modo di essere e di fare della guida (che nel migliore dei casi, ovviamente, si rivela soltanto una maldestra interpretazione personale dell’allievo), e che conduce poi ad un ulteriore e talvolta fatale allontanamento dal processo di autorealizzazione. In questo modo nascono leggende e interpretazioni degli insegnamenti del tutto mistificatorie e false: valga per tutti l’esempio della totale astinenza sessuale in certe vie “spirituali”. A parte determinate circostanze in cui viene consigliato il momentaneo risparmio dell’energia sessuale al fine di concentrare un’energia disponibile per il raggiungimento di determinati obbiettivi, la maggior parte di tali divieti nasce da una infantile osservazione del comportamento dell’insegnante. Se lui si astiene, l’astinenza diventa una regola fissa. A ben vedere, una tale sterile pantomima viene generata proprio dall’illusione di una incolmabile distanza tra “il maestro illuminato” e “l’allievo incosciente”.
Al contrario, tutti noi abbiamo la possibilità di accedere a momenti di oggettività - talvolta grazie ad uno shock fortuito - e in quei momenti vediamo le cose realmente come sono. Non essendo purtroppo preparati correttamente a gestire la situazione, tale esperienza viene poi dimenticata o velata come un sogno di cui a stento si ricordano i contorni; ed essere preparati significa non soltanto la capacità di non “spaventarsi” o “meravigliarsi” per ciò che si vede ma soprattutto conoscere le modalità che ci permettano, con un po’ di fortuna, di porci nelle condizioni di fare questa esperienza della realtà al di là delle nostre esclusive proiezioni soggettive. A questo scopo le scuole tradizionali tramandano speciali tecniche ed esercizi per ripulire lo schermo della mente e risvegliare la capacità latente, nell’essere umano, di vedere le cose come realmente sono. Un tale allargamento della consapevolezza viene definito attraverso parole come “apertura del terzo occhio”. San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi (13, 12) dice: “Poiché ora vediamo attraverso un vetro oscuro; allora invece vedremo faccia a faccia: ora io vedo parzialmente, ma allora conoscerò appieno, come sono conosciuto”. E Guru Nanak, fondatore del sikhismo - mirabile sincretismo di elementi induisti e musulmani: “Gli occhi non vedono la realtà, ma per mezzo della grazia del Guru si comincia a discernere il Potere di Dio faccia a faccia. Ecco perché un discepolo degno e pieno di adorazione può percepire Dio in ogni luogo.”
La necessità di intendersi sul significato di termini come consapevolezza e coscienza non è affatto un sofisma verbale. Gli scienziati parlano oggi di consapevolezza e coscienza come di attributi normalmente presenti nell’uomo. Se così fosse, però, viene da chiedersi perché l’uomo vada verso svolte di preoccupante autodistruzione. Guerre, droghe, inquinamento, e altri rischi del tutto inutili non sembrano azioni degne di individui capaci di coscienza. Forse, prima ancora di parlare di coscienza sarebbe sufficiente solo un po’ di buon senso, e un modo sereno di considerare gli eventi, per comprendere che la distruzione reciproca non può essere prerogativa di esseri realmente consapevoli della propria esistenza e del significato della vita umana in termini certamente più universali. Ciò dimostra - alla base - una frammentazione dell’essere e del sapere, un’incapacità di “percepire tutto ciò che è possibile percepire, tutto in una volta”. L’uomo, afferma Gurdjieff, “non vede il mondo reale. Esso gli è nascosto dal muro della sua immaginazione. Egli vive nel sonno. Dorme. Quella che chiama la sua coscienza lucida non è che sonno, e un sonno molto più pericoloso del suo sonno, la notte, nel suo letto. Consideriamo qualche avvenimento della vita dell’umanità. Ad esempio la guerra. Vi è la guerra in questo momento. Cosa significa? Significa che molti milioni di addormentati si sforzano di distruggere molti milioni di altri addormentati. Si rifiuterebbero di farlo, naturalmente, se si svegliassero. (...) Questi due stati di coscienza, sonno e stato di veglia, sono entrambi soggettivi. Solo cominciando a ricordarsi di sé l’uomo può realmente svegliarsi.”
Non è un caso se nel linguaggio di tutti i giorni ancora si dia comunemente dell’incosciente a chiunque si comporti in modo particolarmente dissennato e distruttivo.
A questo proposito tornerà anche utile soffermarsi su un altro punto che costituisce tuttora uno degli errori di interpretazione più grossolani - eppure più perpetuati - nel tramandare l’insegnamento di Gurdjieff. Troppe parole del maestro caucasico sono state “prese alla lettera”, decontestualizzate cioè dal momento, dal luogo in cui erano state pronunciate e dall’uditorio cui erano rivolte. E’ sempre Anthony Blake a porre l’accento su questo particolare fraintedimento che ha creato in certi casi dei veri e propri disastri pedagogici:
“Tenete a mente che la gente con cui all’inizio Gurdjieff ebbe a che fare erano persone molto competenti, con intelletti sviluppati e una forte volontà. Erano quasi la crema della crema dell’intellighentsia russa. Questo fu il suo primo pubblico. Tali persone non avevano assolutamente alcun problema con la vita ordinaria. E così Gurdjieff arrivò e disse loro: «Voi, voi siete nullità. Voi non esistete. Voi pretendete di esistere. Quel che avete deciso di fare questa mattina lo avete già dimenticato. Siete addormentati. Siete proprio come il meccanismo a molla di un orologio». E così via. E ha venduto loro questo quadro. Alla fine la gente diceva: «Sì, signor Gurdjieff, sono un pezzo di orologio. Per piacere, salvami dall’essere un pezzo di orologio.»”
Questa apparentemente innocua annotazione fa piazza pulita di tanti pericolosi atteggiamenti emulativi perpetrati dai “successori” di Gurdjieff. Dalla morte di Gurdjieff, persona vitale, positiva e ricca di umorismo - a sentire coloro che lo conobbero personalmente - a oggi, la Quarta Via ha, purtroppo, subìto - soltanto con alcuni istruttori, per fortuna - quel fenomeno di degradazione che spesso si genera perfino nei più autentici insegnamenti dopo la scomparsa del fondatore. Uno dei tentativi più discutibili di portare avanti le idee di Gurdjieff è stata la fondazione di una impossibile ortodossia che si incarna nella Fondazione Gurdjieff, negli Stati Uniti. E’ stato così che Gurdjieff, grandissima figura di sincretista, di eclettico studioso e frequentatore di diversissime tradizioni spirituali, il quale cercò per tutta la vita quella grande sintesi che avrebbe dovuto fornire i mezzi ai suoi allievi, attraverso il risveglio della coscienza, per diventare realmente creativi, è diventato una sorta di pontefice assoluto: tutto quello che lui aveva fatto e detto si poteva continuare a fare e dire esattamente nello stesso modo; ma guai a contestualizzare, guai a sperimentare nuovi modi più adatti a tempi, luoghi e uomini diversi! Il che costituisce, invece, proprio la più grande intuizione di Gurdjieff.
A ciò si aggiunga l’altro errore fatale commesso proprio da Ouspensky, uno dei suoi allievi più brillanti, il quale cercò di separare l’insegnamento dal maestro da cui lo aveva appreso. Il matematico russo ormai parlava della Quarta Via come di un “sistema” a se stante, non collegato necessariamente a chi glielo aveva presentato e spiegato. Egli non ebbe la fortuna di comprendere che il compimento dell’ “opus” cui Gurdjieff faceva riferimento ha la sua peculiarità sostanziale nell’essere assunto, digerito, metabolizzato e poi trasmesso sulla base della propria esperienza personale. In altre parole la Quarta Via è “qualcosa di fatto da noi stessi” per adoperare un’espressione cara a John Bennett. Chiunque cerchi di separare questo insegnamento dalla forma che esso assume nell’individuo che lo tramanda, crea soltanto una dannosa e impossibile dicotomia, perché continua a porre all’esterno dell’uomo stesso la fonte della saggezza e della piena realizzazione. Gurdjieff ha dimostrato il contrario: che, cominciando a farsi carico delle proprie responsabilità e decidendo di creare per se stessi delle condizioni di vita artificiali, (complicandosi - ma in modo fruttuoso e intelligente - la vita, cioè tenendo sempre “l’acqua in ebollizione”) l’essere umano può schiudere dentro di sé quell’occhio illuminato che permette la visione del Mondo Reale.
Malauguratamente, un altro dei tratti caratteristici di alcune scuole che sono convinte di seguire e tramandare gli insegnamenti di Gurdjieff, è quello di instaurare un clima di ottuso quanto ingiustificato pessimismo, se non, talvolta, di vero e proprio terrore. L’uomo è una macchina, l’uomo non può fare nulla - come già dicevamo prima. Sono stati “scimmiottati” i più duri atteggiamenti di severità che talvolta Gurdjieff adoperava con i propri seguaci - per motivi ritenuti opportuni in un preciso frangente e con determinate persone - ma che è assurdo considerare come un generalizzato metodo di insegnamento. Proprio John Bennett, subito dopo la scomparsa di Gurdjieff, mise in guardia contro la pericolosità di tali atteggiamenti, essendo convinto che il provocare “shock” negli allievi - se non si possiede una conoscenza e una padronanza della situazione molto accorta e profonda - può creare soltanto gravi traumi per lo sviluppo dell’individuo. Vi è una gran differenza tra il costruire tetre ossessioni di incapacità con conseguenti sensi di frustrazione e una serena obiettiva ricognizione delle proprie capacità e dei propri talenti. Già il fatto di porre un concetto al negativo -”non posso fare nulla” - finisce per generare una profezia auto-avverante. Poiché l’assunto è che non posso fare nulla, mi metterò nelle migliori condizioni per dimostrare di non poter fare nulla, e ciò sembrerà la forza di un destino immutabile, non l’aver realizzato la mia stessa profezia. Laddove l’atteggiamento più consono - senza scadere in facili ingenuità - è quello di partire da ciò che si è, senza vergogne o compiacimenti. Altrimenti ogni sforzo diventa vano. Persino eseguire semplici tecniche per la divisione dell’attenzione.

LE TECNICHE

Tutti gli insegnamenti autentici per lo sviluppo spirituale raccomandano la cura dell’attenzione per poter migliorare la consapevolezza. Molte vie orientali, come lo Yoga, lo Zen e perfino le arti marziali, partono dalla concentrazione per arrivare alla meditazione per sviluppare differenti e più sottili stati di coscienza. Il corpo viene tenuto immobile e le mente pian piano si libera di ogni “brusio” per poter percepire la Realtà. Ciò implica per la maggior parte delle persone, una concentrazione totale dell’attenzione nello sforzo di non ammettere pensieri, ricordi e associazioni. Il che, per lo più, previene soprattutto gli Occidentali dal poter giungere ad una vera meditazione. Si tratta, infatti, ancora di concentrazione. Inoltre, la lotta contro i pensieri spesso ne genera di nuovi. Nella Quarta Via, allora, viene consigliato il “ricordo di se stessi”. Nel “ricordo di se stessi” l’attenzione non è completamente concentrata in un unico atto, ma viene divisa: una parte nello sforzo, l’altra verso la sensazione, la percezione di se stessi.
Lo stesso Gurdjieff nel libro “Life Is Real Only Then, When «I Am»” descrive l’esercizio basilare per la divisione dell’attenzione: “In questo momento, come vedete, sono seduto in mezzo a voi e mentre guardo Mr. L. dirigo intenzionalmente la mia attenzione, cosa che non siete in grado di seguire, sul mio piede; perciò, quale che sia l’atteggiamento preso da Mr. L. e che sia da me visibile, lo percepisco soltanto in modo automatico, perché la mia attenzione globale è assorbita interamente in un altro posto. Questa attenzione globale ora io la divido intenzionalmente in due parti uguali. La prima metà la dirigo sulla coscienza ininterrotta e la sensazione continua del processo di respirazione che si produce in me. Per mezzo di questa parte dell’attenzione sento distintamente che qualcosa accade dentro di me mentre respiro (...) Siccome solo metà dell’attenzione è impegnata ad osservare il meccanismo della respirazione che si produce dentro di me, tutte le associazioni mentali, emotive e riflesse che scorrono in modo automatico nella presenza generale, continuano ad essere percepite dalla parte libera dell’attenzione e naturalmente ostacolano, ma già in modo più debole, l’altra parte che è stata diretta intenzionalmente su di un determinato oggetto. Ora dirigo la seconda metà della mia attenzione al mio cervello cefalico con lo scopo di osservare e possibilmente constatare ogni processo che vi si produce. E già comincio a sentire là, dalla totalità di associazioni che scorrono automaticamente, il sorgere di qualcosa di molto fine, quasi a me impercettibile. (...) Mentre questa seconda metà dell’attenzione è occupata in questa maniera, la prima continua a sorvegliare ininterrottamente e con un «interesse concentrato», gli effetti prodotti dal processo della mia respirazione. Ora io coscientemente dirigo questa seconda metà della mia attenzione e, senza smettere neanche per un momento di «ricordare interamente me stesso», aiuto quel qualcosa che è sorto nel mio cervello cefalico a scorrere direttamente nel mio plesso solare. Lo sento scorrere. Non noto più alcuna associazione automatica svolgersi dentro di me». Gurdjieff termina poi raccomandando ai suoi allievi e lettori di non aspettarsi subito grandi risultati dalla pratica di questo esercizio, poiché non si possiede ancora la padronanza di un «Io» indipendente: ciononostante esso è la base per rafforzarsi e arrivare poi ad avere un vero «Io».
Una versione semplificata di questo esercizio, che comunque produce risultati molto interessanti, consiste nel portare parte della propria attenzione in una parte del corpo, ad esempio la mano sinistra. Portare l’attenzione significa “essere vivi all’interno della mano sinistra”, non certo pensare, immaginare o guardare la mano sinistra. Se ciò viene correttamente eseguito noteremo immediatamente una modificazione nella percezione della nostra mano sinistra o addirittura un cambiamento di alcuni parametri fisici obiettivi. Ad esempio, la mano può diventare molto più calda dell’altra, segno evidente che molta più energia vi è confluita grazie alla nostra attenzione. Oppure sentiremo la mano formicolare, diventare più pesante o più grossa. (E’ stato empiricamente osservato che questo esercizio, praticato su una parte lesa dell’organismo, produce un’accelerazione del processo di guarigione). Questo è il gradino iniziale. Poi si può cominciare a portare l’attenzione, contemporaneamente, sul piede destro, e osservare ciò che accade in noi a questo punto. Le varie correnti psichiche, gli altri livelli di attenzione cominciano ad essere attivati. E ad un certo punto può accadere qualcosa di molto notevole che fa comprendere il valore insostituibile della divisione dell’attenzione.
Quando osserviamo qualcosa la nostra attenzione è unicamente diretta verso l’oggetto o il fenomeno osservato. Nel “ricordo di se stessi”, invece, l’attenzione è diretta contemporaneamente su ciò che osservo e verso me stesso. Dunque parte della mia attenzione non viene totalmente persa nell’osservazione dell’oggetto, ma ritorna indietro dopo che l’oggetto è stato osservato proprio grazie al fatto che l’altra metà era rimasta ancorata a me stesso. Questo semplice fatto è in realtà la base per comprendere il principio della non-identificazione, così diffuso negli insegnamenti orientali. L’osservatore non dimentica se stesso mentre osserva l’oggetto, non trasferisce cioè se stesso totalmente nell’oggetto osservato. Mantiene la sensazione di se stesso mentre osserva. Questo è il principio del “ricordo di se stessi”.
Una delle obiezioni più frequenti a questo principio di non identificazione consiste in una semplice ma intelligente domanda: tutto questo dividere, allontanare, non identificare, come fa ad avvicinarci alla realtà e a riunirci a noi stessi? La risposta non è altrettanto semplice ed è ingannevole: proprio perché a forza di dividere non è detto poi che si sia capaci di riunire; e a forza di allontanarsi non è detto che si sia capaci di avvicinarsi. In realtà l’albero si riconosce dai frutti. Se tutto il lavoro viene eseguito in maniera organica, (ed ecco perché la necessità, almeno iniziale, di un insegnante ben qualificato) dopo un primo momento di separazione da se stessi giunge la fase della “riappropriazione” di se stessi: è un po’ la famosa storiella degli alberi che tornano ad essere alberi e delle montagne che tornano ad essere montagne della tradizione Zen. La separazione, la divisione e soprattutto la non-identificazione con se stessi significano principalmente che il ricercatore si separa momentaneamente da un tipo di decodificazione della realtà circostante (mettendola costantemente in dubbio o seguendo l’ipotesi di interpretazione suggerita dall’insegnante) per sganciarsi dal colpevole abbraccio che la consapevolezza stringe con la sensibilità e che ci impedisce di essere obiettivi. Il risultato finale dovrebbe essere tale da permetterci non solo di percepire nuovamente la realtà dando piena fiducia ai nostri “istinti”, ma soprattutto una maggiore obiettività (e dunque vicinanza) nei confronti di essa. Se ciò non accade dopo un periodo di tempo più o meno ragionevole, è segno che si sta andando incontro a seri disturbi della personalità e che dunque il lavoro è stato impiantato in modo del tutto sbagliato.

IL LAVORO SU SE STESSI
L’esercizio di preparazione e la meditazione mattutina

Si assume una posizione comoda, nella quale si possa rimanere immobili per circa trenta o quaranta minuti. La schiena deve essere ragionevolmente dritta, ma non rigida, possibilmente non appoggiata ad uno schienale. Le gambe possono essere incrociate, se si siede sul pavimento o su un sofà, oppure si può scegliere la posizione seduta. Le mani sono sempre sulle cosce o sulle ginocchia, rilassate. Gli occhi possono essere chiusi o lievemente socchiusi, con lo sguardo a circa tre metri davanti a noi, verso terra.
Si porta l’attenzione sugli occhi, sui muscoli che li circondano, poi sulle guance, la mandibola, il collo, la gola: si procede con il tempo richiesto dalla nostra condizione, mai troppo velocemente, comunque. Ogni volta che si porta l’attenzione su una parte specifica del corpo, si porta poi in quella parte l’impulso del rilassamento. Si torna gradualmente verso gli occhi. Ora si porta l’attenzione sulla fronte, poi sulla parte superiore del capo, la nuca, le orecchie, la parte posteriore del collo. Scendiamo lungo la colonna vertebrale cercando di seguire vertebra dopo vertebra, fino all’osso sacro e poi su di nuovo al collo. Quindi si passa alle spalle. C’è un punto tra il collo e l’articolazione scapolo-omerale nel quale è piuttosto comodo portare l’attenzione e che subito si sensibilizza. E’ quella parte del corpo dove normalmente somatizziamo tutte le preoccupazioni e i sensi di responsabilità. Procediamo bilateralmente portando l’attenzione in questo punto centrale tra il collo e le spalle, poi scendiamo lentamente verso l’articolazione scapolo-omerale e portiamo lì la nostra attenzione. Quindi sulle braccia, poi i gomiti, quindi gli avambracci, i polsi, i dorsi delle mani, pollice, indice, medio, anulare, mignolo e sul palmo delle mani; quindi risaliamo verso le spalle. Ora portiamo l’attenzione sulla parte anteriore del corpo, il torace: rilassiamo i muscoli pettorali e per quanto possibile la muscolatura intercostale; quindi passiamo alla speculare parte delle spalle, rilassando le scapole e tutti i muscoli di questo distretto corporeo. Torniamo sul lato anteriore: rilassiamo dalla bocca dello stomaco fino al plesso solare (tre dita sotto l’ombelico), ammorbidiamo gli addominali e poi passiamo posteriormente, rilassando la porzione di muscoli lunghi del dorso interessata e la regione dorsale della colonna vertebrale.
Torniamo davanti e rilassiamo il bacino, e poi lo stesso posteriormente. Quindi si porta l’attenzione sulle articolazioni delle anche, poi sulle cosce, le ginocchia, le gambe (tibia e perone), le caviglie, il dorso dei piedi, il tallone, le singole dita del piede una per volta (questo è uno dei punti più difficili per la nostra attenzione: avere consapevolezza di una delle quattro dita inferiori del piede, a parte l’alluce, è davvero arduo!) e quindi la pianta del piede. Una volta che la nostra attenzione è sulla parte inferiore dei piedi, visualizziamo e avvertiamo il contatto con la superficie terrestre. Attraverso quel fazzoletto di terra che occupiamo siamo in contatto con tutta la superficie terrestre, cerchiamo di averne percezione, e poi scendiamo in profondità, prendiamo contatto con le viscere della terra. Ora avvertiamo la corrente vitale che proviene dalla Terra scorrere all’interno, partendo dalla pianta dei piedi, su lungo tutto il corpo fino alla sommità del capo e poi giù di nuovo. Passiamo quindi alla respirazione: inspiriamo energie nuove e rinfrescanti ed espelliamo con l’espirazione i prodotti di rifiuto. Facciamo questo circa venti volte. Poi inspiriamo emozioni positive ed espiriamo le emozioni negative e di scarto che albergano ancora dentro di noi. Passiamo al capo: con gli occhi chiusi, visualizziamo una luce potente, che letteralmente lava e pulisce il nostro cervello e ci permette di spezzare la corrente ininterrotta delle associazioni automatiche: è un Sole che proviene da oltre il nostro sistema solare e ci permette di lavare i nostri pensieri. Visualizziamo poi le stelle che, anche se non ne siamo consapevoli, brillano incessantemente e agiscono con precisi influssi protettivi sulla nostra vita.
Qui l’esercizio di preparazione - che come si nota interessa i tre centri fisico (piedi), emozionale (area cardio-respiratoria) e intellettuale (cervello-mente) - ha termine per lasciar posto alla meditazione vera e propria. Dopo questo esercizio di preparazione è possibile restare in silenzio totale con se stessi, rimanendo in uno stato di attiva ricettività nei confronti di qualsiasi stato possa presentarsi. Quindi si passa all’esercizio della decisione: ci si pone un piccolo scopo da portare a termine durante la giornata. Anche una cosa molto banale, come - è solo un esempio - bere un bicchier d’acqua alle cinque in punto o recitare una poesia prima di andare a letto. Anzi, è consigliabile iniziare con obiettivi lievi e anche divertenti per poter poi passare a cose realmente utili per la nostra educazione. Dopo l’esercizio della decisione si rimane ancora in silenzio e poi si termina l’intero esercizio.
Talvolta si collega a questo esercizio di preparazione una seconda parte, che spesso viene guidata e per così dire “improvvisata” dall’insegnante stesso secondo le condizioni del momento.
Di molti esercizi, purtroppo, non è possibile discorrere su queste pagine perché, per una corretta esecuzione, necessitano di una trasmissione orale diretta da parte dell’insegnante. Una particolare cura deve essere rivolta nell’esecuzione di questo esercizio di preparazione: e cioè che devono essere esclusi dalla nostra attenzione tutti gli organi vitali a funzionamento istintivo: cuore, polmoni, fegato, milza, reni. Esercizi tipo rallentare il battito cardiaco possono rivelarsi molto perniciosi. Invece è possibile estendere il rilassamento a ossa, vene, e altri tessuti.

Altri esercizi

Vi sono altri accorgimenti per cercare di sviluppare l’attenzione, rafforzare la volontà, espandere le proprie abilità. Ecco tre esercizi piuttosto impegnativi:

• La Divisione dell’Attenzione: Portare l’attenzione - durante un periodo di tempo ragionevole (iniziando con venti minuti per arrivare a due ore o più) e comunque precedentemente determinato - alternativamente su un arto. Compiere il giro completo del corpo, ma ogni volta che si inizia nuovamente bisogna saltare l’arto iniziale. Esempio. Sono le 9 del mattino. Decido di portare l’attenzione sui quattro arti nell’arco di 60 minuti. Inizio con la mano destra. Dalle 9 alle 9,10 porto l’attenzione sulla mano destra. Una volta stabilito il giusto “feeling”, devo mantenere questa sensazione continuando a fare le cose che normalmente faccio. Ma alle 9,10 in punto devo ricordarmi di spostare la mia attenzione sul piede destro. Poi alle 9,20 sposto l’attenzione sul piede sinistro, alle 9,30 sulla mano sinistra. Alle 9,40 dovrò ricordarmi di “saltare” la mano destra, con la quale avevo iniziato, portando dunque l’attenzione sul piede destro e così via. Ogni giro, si salta l’iniziatore del giro precedente.

• L’Esercizio dello Stop: Ordinarsi uno stop ad ogni cambio dell’ora. Per dieci o venti secondi, appena ci accorgiamo che cambia l’ora, ci immobilizziamo in qualsiasi posizione ci troviamo o azione che stiamo compiendo (sconsigliato durante la guida!).

• Il Canto Interiore: scegliere un mantra, un’invocazione, un canto devozionale a proprio piacimento e ripeterlo incessantemente, quanto più possibile. Dopo un po’, generalmente, l’esercizio termina da solo e a nostra insaputa. Ma appena ci destiamo, perché tale è la natura della coscienza - di essere discontinua - se questo canto si è radicato in noi con fermezza, inizia nuovamente. Potremo addirittura notare, ma solo con una pratica strenua, che nel momento in cui la nostra coscienza si desta, il canto inizia.

• La Numerazione “Teosofica”. Si conta, (questo esercizio può essere eseguito anche camminando e scandendo mentalmente i numeri ad ogni passo) da 1 a 5, poi da 2 a 6, da 3 a 7 e così via fino a 100 e poi si torna indietro. Esempio: 1, 2, 3, 4, 5; /2, 3, 4, 5, 6; /3, 4, 5, 6, 7; /etc. 100, 99, 98, 97, 96; / 99, 98, 97, 96, 95; /98, 97, 96, 95, 94; / etc. Se si sbaglia, cosa molto probabile e statisticamente molto possibile, si ricomincia sempre da capo. Il tragico è sbagliare verso la fine!

Queste poche righe, ovviamente, possono costituire soltanto un assaggio di una corretta pratica di lavoro quotidiano finalizzata al “lavoro su se stessi”. Per poterne scoprire le varie implicazioni, bisogna praticare gli esercizi e lavorare in gruppo. A volte si schiudono dimensioni nuove e insospettate. A volte no. Perché tecniche ed esercizi sono soltanto mezzi. Dunque buoni in un momento e dannosi o inutili in un altro. Perché ciò che libera oggi, potrebbe imprigionare domani.

VERSO LA QUINTA VIA
La peculiarità più dirompente e creativa nella Quarta Via, a differenza delle vie tradizionali, è quella di non poter essere insegnata e di essere “in fieri”. Ciò sembrerà a prima vista un provocatorio paradosso: invece si tratta dell’essenza di un cammino che è in continua evoluzione. Non esiste una meta ultima, un Nirvana o un Samadhi che non venga superato da un ulteriore stato di trasformazione. Gurdjieff parlava di “una legge fondamentale che crea tutti i fenomeni nella loro diversità o l’Unità di tutti gli universi” : la Legge del Tre. “Secondo questa legge, ogni fenomeno su qualsiasi scala o in qualsiasi mondo esso abbia luogo, dal piano molecolare al piano cosmico, è il risultato della combinazione o dell’incontro di tre forze differenti e opposte”. In particolare, mostrava come la Terza Forza (nei confronti della quale, diceva Gurdjieff, siamo ciechi - nel senso che non ne scorgiamo mai la presenza e l’azione) assumesse l’appellativo di forza riconciliante (o neutralizzante) essendo gli altri due termini della triade la forza attiva, positiva e la forza passiva o negativa. “Ma questi sono soltanto dei nomi.” - chiarisce Gurdjieff - “In realtà queste tre forze sono tutte egualmente attive; esse appaiono come attive, passive o neutralizzanti solamente nel loro punto d’incontro, cioè soltanto nel momento in cui entrano in relazione le une con le altre” . Dunque, la Terza Forza arriva a riconciliare la natura antitetica della prima e della seconda. Ora, suggerisce il nostro amico Blake: “Quando il quattro viene fuori dall’ombra, appare esattamente nello stesso modo in cui era apparso il tre: una sintesi di differenze. Nella triade, la terza forza integra le differenze di affermazione e negazione. Nella tetrade, il «quarto» è l’integrazione degli altri tre termini. Questa è l’idea di base che Gurdjieff dà della quarta via: l’integrazione della via del fachiro, del monaco e dello yogi; o del corpo, delle emozioni e della mente. La quarta via non è soltanto «un via ulteriore », come le altre. Perché si qualifica per questo stato speciale? Un nuovo personaggio è apparso sulla scena, uno di cui sospettavamo l’esistenza ma che non potevamo vedere. E’ il trickster (l’impostore, il bagatto n.d.t.) di tutte le società arcaiche o, in termini gurdjieffiani, l’uomo scaltro. L’idea della quarta via che integra insieme le altre tre appare così innocua, così ragionevole! E’ un gioco di destrezza, che richiede l’intervento di un mago, o l’applicazione della pietra filosofale. In una sola parola, è alchemica, nota in quella tradizione come il quarto recalcitrante. Platone era a conoscenza di ciò. Nel «Timeo», Socrate chiede notizie sul quarto ospite che non si è presentato, e deve prendere il suo ruolo. Accade lo stesso con Gurdjieff che insegna la quarta via, che non può essere in effetti realizzata attraverso nessun insegnamento! Tutto quel che un insegnante può fare è stabilire una relazione, una triade. La quarta via è ciò che le persone elaborano tra loro stesse: «qui accade il miracolo!»”
Un altro importante fattore da tenere in considerazione è che “le teorie tradizionali fanno notare qualcosa di grande interesse: che non vi è mai alcun sistema «isolato» che sia valido senza il coinvolgimento di altri sistemi. Se vi è il tre, vi è il due e il quattro; se vi è il quattro, vi è il tre e il cinque”.
Su questa scia, Blake parla della Quinta Via come di un’auto-iniziazione per mezzo della quale si è capaci di assimilare informazioni da ogni fonte. Certamente, se vi è una Quarta Via, è perché vi è una Terza Via e una Quinta Via. Lo stesso discorso è valido per la classificazione (puramente strumentale) in sette tipi che Gurdjieff opera degli uomini: l’uomo n. 1, centrato sul fisico; l’uomo n. 2, centrato sulle emozioni; l’uomo n. 3 centrato sul pensiero. E poi l’uomo n. 4, il “prodotto del lavoro di una scuola” nelle stesse parole di Gurdjieff , nato n. 1, 2 o 3 ma che grazie a sforzi di carattere ben definito è diventato n. 4. E’ colui che ha iniziato a lavorare su se stesso e ha già “un centro di gravità permanente” e certe altre qualità che gli permettono di scorgere la direzione del proprio cammino che lo condurrà verso la formazione di un “io” indipendente e cristallizzato, un uomo che non è più soggetto a cambiamenti accidentali, l’uomo n. 5. E così via.
Ora, lo stesso Gurdjieff aveva offerto alcuni spunti molto importanti sull’auto-iniziazione laddove poneva in risalto la funzione delle scuole esoteriche e il significato di rappresentazioni “iniziatiche” come gli antichi Misteri: “I passaggi da un livello di essere ad un altro erano caratterizzati da cerimonie di presentazione di natura speciale: le iniziazioni. Ma nessun rito può dar luogo a un cambiamento dell’essere. (...) Si suppone che un rito, trasformandosi in sacramento, trasmetta e comunichi certe forze all’iniziato, e questo si ricollega alla psicologia di una via di imitazione. In realtà ognuno deve iniziare se stesso. I sistemi e le scuole possono indicare i metodi e le vie, ma nessun sistema, nessuna scuola, può fare per l’uomo ciò che lui stesso deve fare. Una crescita interiore, un cambiamento di essere dipendono interamente dal lavoro che ognuno deve fare su di sé.”

Alessandro Staiti

Bibliografia minima consigliata

Oltre i testi già menzionati tornerà utile la lettura dei seguenti volumi:

J.G. Bennett: Transformation, Claymont Communications
J.G. Bennett: The Sevenfold Work, Claymont Communications
J.G. Bennett: The Way To Be Free, Claymont Communications
J.G. Bennett: L’uomo superiore, Astrolabio
J.G. Bennett: Making a Soul, Bennett Books
J.G. Bennett: I Maestri di Saggezza, Edizioni Mediterranee

lunedì 23 agosto 2010

La Saggezza dell'Oriente "a convegno".

In questo post, giro ai lettori di Viverealtrimenti la mail ricevuta dal professor Enrico Cheli, sociologo ed autore di diversi saggi sul fenomeno dei "creativi culturali":

Carissimi
sperando di farvi cosa gradita vi informo in anteprima che, con l’amico e collega Dr. Franco Cracolici, abbiamo organizzato per il prossimo 9-10 ottobre a Firenze un
Convegno sul tema

LA SAGGEZZA DELL’ORIENTE
Percorsi di consapevolezza per un nuovo Occidente


In questa fase di cambiamento epocale la civiltà tecnologica occidentale può imparare molto dalla saggezza e dalla spiritualità orientali; tuttavia esse non vanno ingenuamente mitizzate e occorre saper distinguere che cosa prendere e cosa lasciare, e anche sapere come adattare i concetti e metodi dell’oriente alle diverse mentalità dell’occidente.
Parteciperanno quali relatori alcuni dei maggiori esperti italiani di taoismo, sufismo, zen, yoga, sutra, mantra, meditazione, ayurveda tra cui:

Shantena Augusto Sabbadini - Gabriele La Porta - Mario Attombri - Giuliano Boccali - Vincenzo Baccano - Enrico Cheli - Alberto Lomuscio - Antonio Morandi - Roberto Maria Sassone - Fabio Pianigiani - Francesco Bottaccioli - Espedito De Leonardis - Franco Cracolici - Giorgio Cerquetti

I Relatori svilupperanno da diverse angolature i temi oggetto del convegno e avranno a disposizione tempo adeguato per consentire una trattazione approfondita e un soddisfacente dibattito e confronto tra di loro e col pubblico.
Sono previsti esercizi pratici, dimostrazioni e proiezioni.

Informazioni e iscrizioni sul sito web http://www.compagniadeltao.it

Vi sarò grato se fate circolare la notizia tra i vostri contatti
Con i più cordiali saluti

Enrico Cheli
http://www.enricocheli.com

giovedì 19 agosto 2010

Un buon visto europeo per Smriti.

Se Vivere altrimenti sta avendo qualche disavventura per ottenere un visto studentesco per l'India, come si scriveva nel post precedente, le cose vanno meglio per Smriti-Yoga-Teacher, parte integrante del Progetto Viverealtrimenti.
Ho appena ricevuto una telefonata in Sri Lanka, da Varanasi, in cui mi confermava di aver ottenuto un visto di un mese e mezzo per l'Europa, dal 28 Ottobre al 12 di Dicembre di quest'anno. Potra' dunque divulgare la sua buona conoscenza yogica per la quale e' in preparazione un testo in piu' di una lingua, naturalmente con la Viverealtrimenti Editrice. Chiunque fosse interessato allo yoga di smriti e' invitato a visitare il suo sito internet, a contattarla direttamente o a contattare il presente blog-magazine.
Smriti giungera' in Italia, dal Belgio, il 5 novembre. Per il 6 ed il 7 novembre e' in corso di organizzazione un workshop in provincia di Viterbo (il posto e' ancora da stabilire). Il week end successivo Smriti sara' ad Amsterdam per un nuovo workshop per poi ritornare, con buona probabilita', in Italia. Potranno dunque essere organizzati nuovi workshop nel nostro paese, ci sono gia' ipotesi su Bologna e Milano. Viverealtrimenti terra' naturalmente aggiornati i propri lettori sullo sviluppo del progetto Smriti Europe Tour.

martedì 17 agosto 2010

A volte si ritorna…

È tempo di ritorni…cito dal mio ultimo testo “Comuni, comunità, ecovillaggi” che ho ora tra le mani seduto allo stesso tavolo dove, mesi fa, lo stavo faticosamente scrivendo e che non è il solito tavolo. Nella misura in cui non è il tavolo dello stanziale ma quello del nomade, un tavolo che non può non conservare una propria irriducibile estraneità e con il quale, tuttavia, bisogna familiarizzare presto. Cito quanto scrivevo a proposito di una bella esperienza vissuta in Thailandia sul finire del 2008 con il mio amico Prisco, programmatore nomade e “compagno di fughe per la libertà”, come gli hi suggellato in dedica su un mio libro in regalo:

«Parlando con Prisco, in una delle nostre serate in uno dei tanti ristoranti italiani di Chiang Mai o passeggiando per le strade eludendo il canto delle sirene scosciate dei go-go-bar, abbiamo più volte riflettuto sul capovolgimento di uno slogan che si presta ad essere definito negativo: No Global. A Chiang Mai abbiamo avuto modo di verificare la buona fama delle cure thailandesi, dentarie e gastroenterologiche (io avevo un’ameba da mesi, mi ci ero affezionato come ad un animale domestico e Prisco era stato truffato da un dentista, a Roma ed aveva un ascesso sotto una capsula) e la buona qualità della vita che continua ad attirare molti espatriati nel paese. Si ragionava su alcuni vantaggi della vita nomadica: avere il dentista e l’ospedale di riferimento a Chiang Mai, una bella relazione sentimentale a Varanasi, l’olivicoltore in Sabina, una Limited a Londra, buoni riferimenti a Kathmandu o in Sri Lanka quando è necessario un nuovo visto per l’India, a Ventiane o in Malesia per riaverne uno per la Thailandia eccetera.
In altre parole, si ragionava sull’eventualità di acquisire una prospettiva da definirsi, a costo di essere impopolari: Si Global».

Ed in effetti una certa impopolarità questa prospettiva l’ha già avuta. Fondamentalmente presso persone bacchettone (per quanto anche l'invidia ha spesso un ruolo non secondario in queste dinamiche) che non credo si astengano dal mettere il bastone tra le ruote del Progetto Viverealtrimenti se e quando possono farlo. A noi, naturalmente, non ce ne frega niente, procediamo sulla nostra strada, a volte faticando a mantenerci in groppa alla globalizzazione.
E’ una fatica proprio di questi giorni, di ritorno in Sri Lanka, dove ho vissuto oltre tre mesi, sino a Dicembre 2009 e, come anticipato, ho assemblato buona parte dell’ultimo libro.
Il riferimento qui è più che buono. Sono difatti a Sarvodaya, una delle più importanti ONG dell’Asia e fiore all’occhiello del GEN in quanto rete di realtà di villaggio (ne coinvolge circa 15000) con prospettive ambientaliste e di sviluppo dal basso.
Ho collaborato piacevolmente con Sarvodaya nei tre mesi cui accennavo e dunque lo staff dell’International Division dell’organizzazione mi ha accolto con molto calore ed affetto. “La porta per te sarà sempre aperta”, è stata la prima cosa che mi hanno detto. Io ho mostrato loro il mio nuovo libro ed il capitolo che li riguarda. Li ho da tempo naturalmente inseriti anche sul mio sito, nella sezione italiana ed in quella inglese e conto di inserirli in prossimi progetti editoriali in una prospettiva di lavoro in rete.
Sono ritornato in Sri Lanka perchè ho bisogno di uno Student Visa per l’India e questa mattina, nella High Commission, mi hanno già detto che non me lo daranno. Proverò nei prossimi giorni a fare una dolce pressione altrimenti la via del Nepal sarà obbligata. Anche i nomadi hanno le loro gatte da pelare, dunque ed una prospettiva Si Global non può, come del resto ogni prospettiva, essere sempre rosa e fiori. Comunque, non ci lamentiamo, a proposito di rose e di spine qui a Sarvodaya hanno una foresteria spartana ma accogliente ed è possibile utilizzare un wireless che mesi fa funzionava a singhiozzo. Ora sembra funzionare meglio ma sono pronto a dover imprecare, di tanto in tanto. Avere il wireless e dunque poter utilizzare internet dalla propria camera è una facility che si trova solo negli alberghi di categoria medio-alta in Sri Lanka. Posso dunque dirmi fortunato. A Varanasi, l’ultimo mese, la connessione ad internet (per avere la quale mi avvalgo di un pen-drive della Tata) mi ha fatto davvero penare. Il server è lento, ultimamente, per ragioni misteriose.
Una buona ragione per essere contento di essere qui, dove sto ritrovando alcune amicizie.
“Persone”, scrivevo sul mio ultimo testo, “che [a distanza di mesi] ancora mi scrivono ed aspettano che ritorni. Spero davvero di ritornare e di trovare i loro volti piu’ distesi, di trovare meno disperazione diffusa, meno paura della notte, più gioia di vivere, più benessere, più ottimismo. Una piccola parte di me è rimasta con loro, in quella che Tiziano Terzani chiamava l’isola folle”.
Le speranze si sono evidentemente avverate, sono tornato e spero davvero di poter fare un buon report di questa nuova visita prima di dover partire di nuovo, forse in anticipo rispetto alla data prevista, pur continuando a non dimenticare…

sabato 14 agosto 2010

Pellegrinaggi e luoghi santi in India: l’origine delle tradizioni.

Essendo in corso, su questo blog-magazine, la condivisione di una diario di un'esperienza singolare: la partecipazione ad un workshop con Jasmuheen nel corso del Kumbha Mela di quest'anno, ad Haridwar (in fondo i link ai due posts gia' loadati) ho pensato di condividere una bellissima lezione, tenuta da Giuliano Boccali, docente di Indologia all'Universita' degli studi di Milano, il 28 marzo 2000. Allora era difatti in corso un altro importante Kumbha Mela, ad Allahabad, rappresentato a Roma da una splendida mostra fotografica presso il Museo Nazionale D'arte Orientale, cui faceva da corollario il libro fotografico Kumbha Mela, di Rosa Maria Cimino, pubblicato dall'ISIAO (Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente). Lascio dunque la parola al professore per la lezione in titolo:

Ho scelto il tema: pellegrinaggi e luoghi santi in India nelle origini e nella tradizione anche perché mi sembra, oltre che intonato alla mostra fotografica, anche intonato, comunque lo si valuti, comunque lo si senta, all’anno giubilare in quanto offre la possibilità di una riflessione sui luoghi santi ed è da questa riflessione che vorrei partire nella conversazione di questa sera. Mi sembra, almeno in prima battuta, che tra le città sante dell’Occidente e dell’Oriente esista una differenza profonda. Roma è diventata prima la capitale di un impero, poi la sede del sommo pontefice che è la massima autorità spirituale della cristianità. A loro volta Gerusalemme e La Mecca che assimiliamo qui per molti motivi sui quali non mi soffermo ad una città santa dell’Occidente, sono stati teatro di avvenimenti troppo noti, troppo fondanti per dover essere ricordati per esteso. Ad accomunare quindi le tre città, che possiamo forse considerare come le più sante dell’Occidente, estendendo in questo caso il concetto di Occidente anche all’Islam, è il fatto che in tutte e tre sia avvenuto qualcosa di storico, o almeno che viene considerato storico, così fondamentale per le civiltà e per le religioni implicate da indurre a eleggere queste città a luogo sacro e anche a proiettarne nel futuro l’eternità, per così dire, sono considerate città eterne. A maggior ragione storici e anche storico-religiosi, ovviamente, sono i motivi della “santità” e dell’eternità, per esempio, di Parigi. Nulla di tutto questo implica che le quattro città che costituiscono il circuito, se così lo vogliamo chiamare modernamente, del Kumbha Mela, cioè Haridwar, Ujjain, Nasik e Allahabad ma anche a Benares o a Puri nell’Orissa o a Madurai nel Tamil Nadu, per citare alcune delle città più sante dell’India, nulla di assoluto rilievo storico è accaduto. In nessuna di queste città, che intenzionalmente ho riportato tra le più sante dell’India, è stata mai un centro politico di uno degli stati che hanno fatto la grande storia dell’India, oppure, nei rari casi e momenti in cui lo sono state, la loro santità ed eternità nulla hanno a che vedere con la preminenza politica rivestita dagli stessi centri in periodi determinati. Così, per esempio, Ujjain, che fa parte delle quattro città sante della Kumbha Mela è stata la capitale, nell’epoca classica per antonomasia, quella dell’impero dei Gupta nel quinto-sesto secolo dopo Cristo. La santità, però, la sacralità di questi luoghi nasce da condizioni e requisiti di tutt’altra natura, incommensurabile, potremmo dire, con quella politica, militare o curtense. Cioè il fatto che in rari casi, in periodi delimitati, alcuni di questi centri siano stati anche grandi centri politici, come i grandi centri storici, non hanno niente a che vedere, ad occhi indiani, con la loro sacralità. Da dove nasce? Quali sono le ragioni di questa santità? Almeno a occhi occidentali esse appaiono più in luce e risiedono essenzialmente, come quasi tutto in India…abitano, per così dire, nel mito, nel piano mitico, che decreta la particolare sacralità di questi centri. Dico particolare non a caso, perché ad occhi indiani, tutta l’India è sacra, quindi la sacralità è questione di proporzioni, di intensità, in quanto fondamentalmente l’intero subcontinente, come noi lo chiamiamo, è tutto sacro, ed è la sede, ad occhi indiani, forse non solo indiani, di processi spirituali di straordinaria elevazione, di straordinaria intensità. All’interno però di questa concezione che sacralizza tutta l’India, indubbiamente ci sono dei centri che lo sono più che altri e la sanzione di questo status non è storica, ripeto, ma è mitica. Così per esempio, per riprendere quello che ho appena accennato riguardo, poniamo a Mathura o Ujjain, Mathura è sacra in quanto, nella foresta di Vrindavan, lungo le sponde della Yamuna, il mito dice che Krishna è stato allevato fra i pastori, dai genitori adottivi ed ha conosciuto le prime esperienze sia di lotta con i demoni, in particolare il pro-zio che ne aveva osteggiato la nascita, sia di amore con le famose gopis, le pastorelle. Ujjain a sua volta è sacra per molti motivi, prima di addentrarci in quello che ha a che fare con il Kumbha Mela ne ricordo un altro, un mito di segno diverso, cupo, inquietante, legato a una vicenda divina molto dolorosa, intendo dire il suicidio della prima sposa di Shiva, Sati, la fedele, la quale si arde con un fuoco interiore, da lei stessa emanato, per protesta contro il proprio padre che non ha reso onore al suo sposo Shiva, non l’ha fatto parte di un sacrificio. La figlia, perciò si consuma con questo fuoco interiore, per protesta contro la negligenza, l’insulto paterno verso lo sposo. Shiva è disperato, si carica sulle spalle il corpo morto della sposa divina e vaga come un folle per l’intero universo, finché Vishnu, impietosito e anche per suggerimento delle altre divinità non decide di alleviare questo strazio e con le frecce fa a pezzi, saettando, divide, per così dire, il cadavere di Sati in brani. Dovunque uno dei brani del corpo, del cadavere della dea è caduto, lì Shiva stesso risiederà in una delle sue forme e soprattutto il brandello di questo grande, immenso corpo divino rende sacro il territorio. Per l’esattezza questi luoghi che sono 57, sono detti Shakti-pita, cioè piedistalli, seggi, troni, addirittura della Shakti, vale a dire della potenza ma nel senso della grande dea donna, la grande dea femminile e tra questi si annoverano, per l’appunto, alcuni notissimi, Benares stesso è una Shakti-pita, anche se non è il motivo fondamentale della sua preminenza. Ujjain, oltre a far parte del circuito del Kumbha Mela è uno Shakti-pita. La sanzione della santità di un luogo è, ripeto, non storica - non si suppone che sia successo niente di obiettivo, di fattuale - ma è mitica. E assicura che cosa? La santità del luogo assicura che esso è, sostanzialmente, dispensatore di due cose: la fertilità e su questo ritorneremo perché non è così ovvio… e l’altro è la purezza. Questo requisito della purezza, cioè, meglio della capacità di generare e di purificare, è dovuto spesso ma non sempre alla presenza di corsi d’acqua, di correnti d’acqua, che è considerata lo strumento di purificazione per eccellenza, perciò si chiamano tirtha guado sacro e, infatti, le località così chiamate sono molto spesso lungo i fiumi, Benares per esempio, o addirittura alla loro confluenza, come Allahabad, a ovest di Benares, che è il centro principale del grande rito, della grande cerimonia, pluriennale, del Kumbha Mela. Ad Allahabad sfociano, infatti, nella Ganga, la Yamuna, altra fiumana santissima, come abbiamo visto, sulle cui sponde sorge anche Delhi e, secondo il mito, la Sarasvati di cui si parla fino nei miti vedici, prima fiumana sacra a noi nota della tradizione indiana e anche una delle prime dee che tali restano nella plurimillenaria vicenda dell’India ma fisicamente, geograficamente almeno, sembra essere scomparsa, dice però la tradizione che sotterraneamente ad Allahabad la Sarasvati si congiunge con la Ganga e la Yamuna. Non mancano peraltro i tirtha sulle acque anche dei laghi, come per esempio Pushkar, nel Rajastan, vicino ad Ajmer che è sacra ed è uno dei rarissimi, forse l’unico centro, sacro a Parvati. E anche questo avrebbe una spiegazione mitica ma…
Bene, soffermiamoci allora un attimo sul motivo della santità di questi quattro centri. Li ricordo di nuovo: Haridwar, Ujjain, Nasik e Allahabad che formano questo grande ciclo rituale del Kumbha Mela. L’esordio del mito della Kumbha Mela, come nel caso di tutti i miti indiani, può essere raccontato in molti modi e a seconda dei diversi Purana, cioè dei testi sacri che lo narrano, le narrazioni sono diverse. Ma il nocciolo sta in questo: esiste intorno alla terra nota, la terra che noi abitiamo, un oceano che è di latte nel quale sono immersi alcuni beni molto preziosi. L’oceano è insondabile, l’onnipotenza degli dei indiani è di dubbia, per così dire, natura, come la loro immortalità, anzi, per la verità gli dei indiani non sono immortali e questo è un fatto piuttosto interessante, e perciò per essere immortali hanno bisogno di recuperare ciò che è andato perso nell’oceano di latte, in particolare un’ampolla, un vasetto, Kumbha, che contiene l’ambrosia dell’immortalità. Non si sa bene come fare perché questo oceano di latte è insondabile. A un certo punto qualcuno ha l’idea di localizzare una cosmica zangola, uno strumento con cui tradizionalmente si faceva la panna. È una sorta di botte molto allungata con un coperchio che contiene un bastone che viene fatto rotare con una manovella in maniera che sbattendo la panna, la panna si addensa e dà luogo al burro. Chi frequenta la montagna l’avrà vista. Ed è organizzata una zangola cosmica che è da immaginare capovolta, quindi la base è anche il coperchio, per così dire, è garantito da Vishnu che si manifesta nella tartaruga. Il monte Mandara, monte sacro, funge da bastone nel frullino e intorno a lui, per garantire il movimento rotatorio, si attorciglia il serpente Vasuki, il serpente dell’infinito, che viene tirato da una parte dai deva, dagli dei, e dall’altra parte dagli asura, gli anti-dei, i demoni. Non sono del tutto equiparabili ai demoni occidentali ma comunque l’analogia è abbastanza pertinente, i quali tirano gli uni da una parte, gli altri dall’altra. Gli asura si sono prestati all’iniziativa con loro finalità abbastanza evidenti. L’operazione comincia. Gli dei tirano da una parte, gli asura dall’altra, il povero serpente, secondo alcuni versioni è un po’ strattonato e strangolato dall’operazione, per cui emana un veleno formidabile che brucerebbe l’universo intero se Shiva non intervenisse, come spesso fa, per salvare il mondo, deglutendolo e restando per sempre segnato da una macchia blu al collo. Donde uno degli epiteti più comuni di Shiva: milakanta, il dio, colui che ha il collo blu. Però salvo questo l’operazione riesce e cominciano finalmente a manifestarsi questi preziosi che erano persi negli insondabili abissi dell’oceano. Fra questi la luna, per esempio, Lakshmi, dea stupenda della bellezza e della fertilità, che arriva a bordo di un loto e viene immediatamente innaffiata da due elefanti che la puliscono del latte. Kasturbha, cioè il gioiello di cui Vishnu si fregia, l’albero dei desideri, eccetera eccetera…finché non arriva finalmente questo…secondo alcuni retto dal medico degli dei, secondo altri per proprio conto, questo kumbha, questo vaso contenente l’ambrosia dell’immortalità. Qui naturalmente si rivela come mai gli asura hanno partecipato all’iniziativa: vogliono berne anche loro e si ingaggia una titanica lotta fra gli dei e gli anti-dei per il possesso di questo vaso. Uno, fra l’altro, degli anti-dei riesce a berne un po’, la luna e il sole lo vedono, lo denunciano, Vishnu lo decapita con il proprio disco ma secondo la logica ferrea del mito fino alla gola l’ambrosia è scesa, quindi la testa rimane immortale ed è fissata nella volta celeste da dove si vendica del sole e della luna e li azzanna, quando può, provocandone, temporaneamente, l’eclissi. Salvo questo incidente, alla fine, dopo dodici giorni, il conflitto si chiude con la vittoria dei deva, però quattro gocce del divino liquido sono nel frattempo cadute a terra e nei quattro punti del sacro suolo dell’India, raggiunti dalle gocce, ci sono i quattro luoghi santi, che formano il circuito cerimoniale del Kumbha Mela che dura dodici anni in quanto ogni giorno divino equivale a un anno umano e quindi in ciascuna di queste tre località, a turno ogni tre anni, c’è una cerimonia, un grande raduno festivo, religioso, che culmina ad Allahabad ogni dodici anni. Questa è la ragione, mitica, come, del resto, in altri casi, della santità di queste quattro località e della grande cerimonia del Kumbha Mela. Ma più in generale torniamo a una riflessione sui luoghi sacri dell’India: le acque sante di tutti i guadi sono ritenute capaci di cancellare ogni colpa e in questo modo esse consentono due cose una di migliorare, di vedere esaudite le proprie legittime ispirazioni mondane, e devo dire che questo aspetto rimane di solito in ombra nell’idea occidentale di tirtha e su questo torneremo…e anche consentono di raggiungere, dopo la morte, il paradiso, ovvero di liberarsi definitivamente dal ciclo delle rinascite. Attenzione, i due scopi non sono affatto equivalenti, anzi, per certi versi sono antitetici. Perché? Ad occhi indiani il paradiso, popolato di piaceri del tutto mondani, è una condizione alla quale si accede dopo una vita eticamente, religiosamente, ben vissuta. È una sorta di premio alla propria corretta esistenza mondana e il soggiorno fra una vita e l’altra. Secondo le note concezioni indiane, infatti, gli atti compiuti nell’esistenza attuale hanno non solo le conseguenze pratiche che possono avere adesso ma gettano come un seme etico, un seme buono o cattivo a seconda della valenza etica dell’atto compiuto. Questo richiede un terreno adeguato per svilupparsi e perciò si determina la necessità delle rinascite, in maniera che questi semi, positivi o negativi si possano sviluppare. E’ la cosiddetta legge del karma cioè, come viene tradotto di solito, Karma è un termine che significa “atto”, “azione” ma viene inteso, in questo senso, come “retribuzione causale”. Il paradiso, quindi, è una condizione transitoria nell’intervallo, lungo o breve, a seconda dei meriti accumulati tra una vita e l’altra. Il fine ultimo dell’essere umano, però, non è il paradiso, perché il paradiso comporta comunque di rinascere e rinascere significa incontrare nuovamente il dolore. I più drastici, rispetto a questa considerazione, non sono del resto tanto gli induisti quanto i buddisti, per i quali il paradiso è una tremenda iattura, nel senso che dopo aver goduto di questi celesti, ultraterreni piaceri, la ridiscesa nel dolore mondano è la peggiore delle punizione. Però anche gli hindu sono, con più gradualità, della stessa opinione, talché lo scopo finale del progresso spirituale dell’essere umano è quello, come sapete, di liberarsi da questa condizione di rinascita e rinascita e rinascita, il famoso samsara, il cerchio delle rinascite, per accedere alla liberazione, moksha o mukti, da questi cicli dolorosi e inconcludenti. Perciò, il moksha è per l’Induismo, e anche per il Buddismo ed il Giainismo, il fine più elevato, il fine ultimo che l’essere umano può proporre a se stesso. Nel Mahabaratta, l’epopea nazionale indiana, come pure nei Purana, testi antichi delle tradizioni e’ per ciò detto: spezzatisi i piedi con un sasso l’uomo deve risiedere a Varanasi, a Benares. Poteva dir Benares o poteva citarne un altro. L’espressione piuttosto paradossale allude alla necessità assoluta di intraprendere la via verso la liberazione e all’aiuto insostituibile che un guado come quello di Benares o come molti altri, lo vedremo, può offrire, al punto che conviene autoinvalidarsi pur di essere certi di soggiornare definitivamente, per sempre, a Benares. Il termine tirtha assume in questo quadro un significato esclusivamente spirituale. Sull’acqua o meno il guado sacro è il luogo che aiuta ad attraversare l’esistenza mondana, a raggiungere l’altra sponda, quella appunto dell’adempimento spirituale della liberazione. Ancora più ampiamente e profondamente, guado sacro è il luogo dove dall’effimero e dal transeunte si apre l’atteso varco verso il permanente e l’assoluto. Il termine, vale la pena di sottolineare, perché questo termine, tirtha, sorge e si carica di un proprio significato pregnante, entro la stessa costellazione semantica dove si colloca, in Occidente, il termine Pontifex. Temaponti è un sinonimo perfetto di tirtha, cioè delinea anch’esso, innanzitutto, il guado, il passaggio; la possibilità di accesso al mondo divino, spirituale, trascendente. In questo senso abbiamo già accennato, esistono tra i luoghi più santi, tra i tirtha più santi, anche località che non sono legate ai corsi d’acqua, come Puri per esempio, nell’Orissa, grandissimo centro del culto di Vishnu, o Madurai, in Tamil Nadu. In ogni modo le visite ai guadi sacri, dette tirthayatra, acquistano un rilievo fondamentale e il Mahabaratta ancora ci indica che il loro prototipo assolutamente grandioso è da ravvisare non solo nel circoscritto pellegrinaggio che i fratelli Pandava, cioè un gruppo di protagonisti del Mahabaratta, compiono all’inizio del proprio esilio, che fa parte della grande vicenda drammatica del poema, ma soprattutto nel gigantesco atto di venerazione che i cinque fratelli compiono alla fine della loro esistenza terrena, quando dopo aver consumato tutta la dolorosissima vicenda della loro famiglia, della guerra fratricida, prima di abbandonare l’esistenza fenomenica, compiono un gigantesco pradakshina intorno a tutta l’India. Pradakshina è un antichissimo rito già indoeuropeo o atto, per lo meno, che consiste nel girare intorno alla persona, alla cosa, all’oggetto che si intende venerare, tenendolo alla propria destra e compiendo un giro completo. Tra l’altro è curioso in India, questo è molto radicato. Voi trovate persino nelle guide musulmane, cui non dovrebbe importargliene niente, che guai se vi provate a fare il giro del tempio passando da sinistra. Vi fermano immediatamente, con gesti di scongiuro e vi fanno fare il giro dalla parte destra. Ecco queste processioni nei luoghi sacri trovano il loro modello, mitico sempre, a sua volta fondante, in questo grandioso Pradakshina con cui i cinque panduidi compiono una circumambulazione dell’India intera, riconoscendone quindi, sancendone la sacralità, prima di inoltrarsi verso Nord dove gradualmente prima Draupadi, cioè la loro sposa comune, poi i cinque fratelli, si spengono. L’ultimo che rimane in vita è il fratello maggiore, con il suo cane. Viene incrociato, per così dire, intenzionalmente dal dio Indra che gli propone di salire sul proprio carro per raggiungere il cielo. Si rifiuta se non sarà accolto sul carro anche il cane. Il cane si rivela poi essere il dio Dharma, il dio dell’ordine sociale, religioso. Interrompo la mia esposizione con questi racconti, un po’ perché alleggeriscono l’esposizione stessa, un po’, c’è un intento più sottile: la sostanza della civiltà indiana, della tradizione indiana e della religiosità indiana, sta quasi interamente, non interamente, sta molto in questi miti e i miti, per loro natura, vanno raccontati, come le opere d’arte vanno viste. Non si sottolineerà mai abbastanza, secondo me, il rilievo dei miti nel tessuto culturale, religioso ma in generale culturale, dell’India. Al punto che ci sono fior di storie sui danni gravi che derivano all’umanità e alla società quando il patrimonio mitico si depaupera o viene trattenuto. Dunque, la realtà, dicevo, grandissimo modello del tirthayatra, delle processioni come quelle che formano il… che vengono dedicate, in particolare ad Allahabad ma anche a Nasik, a Haridwar e Ujjain è questa grandiosa circumambulazione dell’intera India, raccontata dal Mahabaratta. Non solo però, a sottolineare che la realtà dei tirtha è un fatto spirituale, più che geografico, bisogna ricordare che i Purana, testi di antichità, identificano tre tipi di tirtha. I tirtha di cui abbiamo parlato finora, cioè le località geografiche concrete, le quali sono definite tirthashwara, cioè “stabili”, perché è ovvio, i luoghi non si possono spostare. Poi esistono, attenzione, secondo me con grande finezza analogica, anche due altri generi di tirtha, quelli mobili, jangama, che sono i maestri spirituali, i guru o i sadhu, i quali essendo esseri umani si possono spostare autonomamente, dai quali pure ci si reca per ricevere un insegnamento religioso e che costituiscono, anche loro, come il pontifex latino, il guado tra il mondo fenomenico e il mondo trascendente e infine, attenzione, i tirtha interiori, manhasa, spirituali, fatti cioè di manhas, che comprendono attitudini come la compassione, la veridicità, la pazienza. Si tratta cioè, in quest’ultimo caso, di luoghi della propria anima, noi diremmo di attitudini, che ciascun essere umano se vuole può visitare come se facesse il pellegrinaggio alla pazienza, alla fiducia, alla veridicità e attraverso questo pellegrinaggio all’interno di se stessi, verso questa zona di se stessi, si fosse, come di fatto si è in realtà, facilitati nell’accedere dal mondo delle apparenze a quello della realtà spirituale. La realtà dei tirtha dunque è prima interiore e obiettiva, la sanzione della loro santità è mitica, anziché storica e in questo sta ma in un certo senso è implicito in tutto quello che ho detto sinora e anche forse nel modo in cui l’ho detto, la differenza effettiva tra l’India e l’Occidente: la santità di un luogo è sancita da un mito, non è sancita dalla storia. Con le parole sintetiche di Diana Eck, che è autrice di una delle migliori opere di riferimento su Benares, che cito però in questo contesto perché può valere per tutte le altre località sante dell’India:

diversamente da queste altre antiche città [ha appena parlato l’autrice di Atene, di Roma e di Gerusalemme] d’altronde, Benares è una città la cui storia politica è poco conosciuta. Di rado è stato un centro politico importante e l’ascesa o la caduta dei sovrani, attraverso la sua lunga storia, non riveste nessun ruolo nel racconto della sua santità, narrato dalla sua stessa popolazione. Varanasi è detta “la città di Shiva” fondata all’alba della creazione. Non sono gli avvenimenti della sua lunga storia a renderla significativa per gli hindu. Piuttosto essa ha una storia così lunga ed è sopravissuta e fiorita attraverso le fortune mutevoli dei secoli poiché è significativa per gli hindu.

È una differenza sostanziale, secondo me riflesso delle differenti e complementari vocazioni di questi due grandi modi di essere dell’essere umano, perdonatemi, che noi adombriamo con queste due grandi metafore di Occidente e Oriente. Se però la differenza in questo senso è evidente, è molto marcata. L’Occidente mira, per così dire privilegia la storicità. L’Oriente privilegia il mito, da questo punto di vista…è certo però che questa distinzione poco incide sulla natura, sullo status in se stesso della città santa. In India come in Occidente la città santa è il luogo, anzi il varco, il passaggio, il guado, appunto, dove l’eternità irrompe nel tempo, il trascendente nel quotidiano. Sia detto per inciso considerare storici i motivi per cui una località esce dalla storia o favorisce l’uscita dalla storia è, in qualche modo, contraddittorio, è una contraddizione in termini. Ad ogni modo io certamente sono occidentale come siamo tutti noi. Sono innamorato dell’India come spero si senta e, come dire, partecipo di un po’ di entrambe le situazioni ma trovo che da questo punto di vista la posizione orientale sia molto più diretta. In ogni modo, ripeto, quale che sia il motivo, la natura della sanzione di questo status eccezionale le città sante, i luoghi santi in Oriente come in Occidente hanno lo stesso requisito: sono luoghi che favoriscono il passaggio da questa spiaggia, per usare una espressione per l’appunto indiana, alla spiaggia lontana della salvezza, della liberazione, i luoghi dove questo passaggio è possibile e forse è più agevole. Sottointeso, rimane ancora nella metafora, che l’oceano tra le due spiagge è profondo ed è molto pericoloso. Secondo i Purana cinque tra i tirtha più potenti, in grado di dispensare la liberazione sono Ayodhya, Mathura, Haridwar, Ujjain e Kashi, la splendente, per l’appunto, Benares. Secondo altri cicli mitologici, come abbiamo visto -in questo sono citate due città del Kumbha Mela, cioè Haridwar e Ujjain- secondo invece la mitologia del Kumbha Mela anche naturalmente Nasik e soprattutto Allahabad sono in grado di assicurare la liberazione. A questo punto io mi vorrei soffermare un pochino su questa concezione che è molto più occidentale che indiana, per cui noi, quasi istintivamente credo, attribuiamo al pellegrinaggio alle città sante, confortati anche dai testi, sovente, quasi esclusivamente, la finalità di favorire la liberazione. Questa è una deformazione, secondo me, che ha radici lontane, non ultime la storia proprio dell’ideologia europea, la quale è nata da antenati illustri, cioè l’interesse per l’India è nato in uomini di cultura: pensatori, filosofi, letterati dello spessore di Cumbort, dei fratelli Schlegel, di Goethe stesso, più tardi, come sapete, di Schopenhauer, i quali hanno a loro volta formato il loro interesse su testi di assoluta statura, soprattutto filosofica e religiosa. Le Upanishad per esempio. Diciamo, un po’ paradossalmente, che la nostra idea dell’India è l’idea che avrebbe un indiano o meglio,una generazione di indiani che si fosse formata alla conoscenza dell’occidente esclusivamente, supponete, sui testi…poniamo sui vangeli, poi sui testi di S. Agostino, di Leibniz e di Kant. Avrebbero un’idea di un Occidente tutto proteso alle dimensioni più elevate, tutto proteso al regno dei cieli o, quanto meno, attraverso Kant, all’imperativo categorico ed eventualmente a quello isterico. Le cose non stanno propriamente così. Non stanno propriamente così neanche in India. In India peso analogo alla ricerca del moksha, della mukti hanno anche le finalità, per usare un termine squisitamente hindu della vita mondana e su questo aspetto, se mi consentite, vorrei soffermarmi qualche momento per chiudere questa riflessione sui luoghi santi, con una piccola digressione che però penso ci consenta di mettere a fuoco alcuni aspetti di grande importanza.
Ora, secondo i testi della grande tradizione indiana, una vita correttamente vissuta deve perseguire in successione di tempo tre finalità. Per vita correttamente vissuta si intende in genere il riferimento al maschio delle tre classi superiori: bramini, guerrieri e produttori di beni. Non ci soffermiamo sulla condizione della donna perché sarebbe troppo complesso ma diciamo, in generale, un hindu deve, nella sua vita, perseguire tre finalità. Finito il periodo dell’apprendistato che dura per tradizione fino a sedici anni, il giovine deve formarsi una famiglia, deve vivere, cioè, la condizione di capo-famiglia e deve in questa fase perseguire, come scopo della sua vita, il kama, cioè il piacere. In questa ricerca, in questa finalità, è inclusa anche la donna, anzi a vero dire, i testi tradizionali indiani sono tra i primi e certamente i più antichi che riconoscono alla donna lo stesso diritto al piacere dell’uomo. Per piacere si intende il piacere sessuale in senso stretto ma anche la ricchezza della vita, delle emozioni e delle sensazioni che non solo il sesso possono offrire al giovane. Questa fase della vita prosegue ma, crescendo l’uomo, crescendo la coppia, in sostanza, la finalità diventa un’altra, la finalità diventa artha, letteralmente “lo scopo”, “il fine”, per antonomasia, cioè quello che oggi noi chiameremmo “la professione”, “la carriera”, cioè dopo il piacere l’uomo è chiamato a realizzare i compiti ed anche i successi inerenti alla sua condizione sociale. Se è bramino dovrà diventare famoso come specialista del sacro, dovrà guadagnare come tale, dovrà, possibilmente, diventare consigliere di sovrani o di potentati. Se è guerriero dovrà combattere, se è un mercante o un produttore, un agricoltore dovrà espandere il più possibile la propria attività. Tutto questo, però, nell’India tradizionale, ha dei confini precisi, cioè, dicono i testi, quando si vede sgambettare in casa il primo nipote, maschio, è il momento di cambiare marcia e di dedicarsi al terzo scopo, chiamato dharma, cioè la legge religiosa, la legge morale; è un termine molto ricco, molto complesso che include proprio questa evidenza che la civiltà indiana ha dalle origini dell’esistenza di un ordine profondo e unitario delle cose che abbraccia il mondo divino, il mondo spirituale, il mondo sociale e anche il mondo individuale. Questo scopo, dharma, si persegue lasciando la residenza abituale e le cure mondane, noi diremmo, ritirandosi - se è d’accordo, sempre con la propria sposa - nella foresta, per dedicarsi a una vita molto semplice, anche sul piano della concretezza: cibi molto semplici, un alloggio, una capanna molto semplice e dedicandosi alla lettura dei testi sacri, anzi di testi sacri appositi, gli Aranyaka, che appunto forniscono spunto a un rientro in se stessi. Interessante notare, questa concezione si chiama trivanga, cioè “i tre obiettivi”. In essa il terzo fine, dharma, giustifica e riassorbe gli altri due. E, infatti, è sempre la legge religiosa, profondamente inerente all’ordine dell’universo, naturale e sociale, a richiedere la realizzazione dei due fini che cronologicamente la precedono. Cioè è sempre il dharma che richiede che prima del dharma stesso l’essere umano si concentri sul kama, sul piacere e sulla vita pratica, sugli ottenimenti della vita pratica. Esiste però, non tassativamente prescritto ma possibile, un quarto fine da raggiungere, com’è ovvio, nelle premesse stesse di quanto siamo venuti supponendo, che è la liberazione, moksha o mukti dal ciclo delle rinascite. Nella successione temporale questo fine segue al dharma, per cui si parla anche di quattro fini, non solo tre, e si persegue abbandonando anche la dimora nella selva, per vivere in rigorosa solitudine, esclusivamente di elemosine, povertà assoluta, svincolati da ogni obbligo, anche religioso formale e privi, altresì, di ogni diritto. È la condizione ascetica del samnyasi, il rinunziante, che si pone deliberatamente al di fuori della società per dedicarsi solo al fine supremo: raggiungere, attraverso l’ascesi, lo stato di unità con l’assoluto. Oltre le antitesi apparenti della vita e della morte. In vista di questo fine ultimo è anche contemplata la possibilità di accelerare il processo, saltando i tre fini mondani e transitando direttamente, d’abitudine dopo l’istruzione tradizionale, conclusa a sedici anni, allo stato della rinuncia. La tradizione impone come iniziatore di questa possibilità, come di molte altre cose, il grande filosofo Shankara, che personalmente avrebbe addirittura, molto precocemente, scelto lo stato del samnyasa a otto anni. In ogni modo, ripeto, nella successione dei quattro fini, la liberazione è l’ultimo, viene anche dopo il dharma e prevede questa condizione ascetica del samnyasa, oppure si può saltare tutti e tre gli stati intermedi e accedere direttamente al samnyasa. Il trivarga prefigura, dunque, e prescrive una realizzazione piena della vita secondo valori umani sanzionati e santificati anche dal punto di vista più elevato e universale dell’ordine socio-cosmico. Il dharma stesso prevede ed armonizza, come si vede, i fini che lo precedono. Il moksha o mukti, invece, prevede un’accelerazione formidabile del progresso spirituale, condizioni intenzionalmente scelte e molto rigorose e l’aspirazione, il tentativo di accedere, direttamente, nella vita di cui attualmente si dispone, alla liberazione. Si può considerare che, tendenzialmente, non tassativamente, dei due grandi dei dell’Induismo, Vishnu è, fondamentalmente, il custode del dharma e quindi di questa vita realizzata in tutta la pienezza e la ricchezza delle sue valenze umane. Shiva è fondamentalmente la divinità degli yogi, dei sadhu, dei rinunzianti. L’uno sovrintende al dharma non tanto nell’episodico, nel singolo evento, quanto a livello di ritmi cosmici, come sapete interviene, attraverso le proprie manifestazioni, per risollevare il dharma quando decade. Shiva, invece, si pone al di fuori, in un certo senso, della società. Ha un comportamento che, a ben riflettere è proprio una manifestazione di quanto di meno hindu esista, in quanto non ha famiglia, non ha discendenza, si sposerà poi, previ notevoli sforzi per persuaderlo ma non ha varna, non ha classe sociale, il che è inconcepibile per un hindu. Medita su una pelle di tigre o di pantera, si veste di una pelle di elefante sanguinante, adopera dei cobra come bracciali, cioè è l’antitesi, pur essendo una delle massime divinità, apparentemente è l’antitesi dell’Induismo. Questo detto molto genericamente in quanto poi anche a Vishnu i seguaci possono chiedere di essere aiutati nel loro accesso alla liberazione. Del resto, per chi ha visto le foto dell’esposizione, tutti i sadhu che vedete con segni verticali sulla fronte sono vishnuiti, per notizia di costume. Tutti invece i segni sulla fronte orizzontali sono shivaiti. Ma volevo adesso stringere le fila e ritornare a un accenno che avevo fatto all’inizio. Il fenomeno pellegrinaggio, il fenomeno yatra quindi in India non include solo il pellegrinaggio dei sadhu o di coloro che per qualche motivo vogliono accedere alla liberazione in questa vita ma include per la maggioranza dei fedeli l’aspirazione ad essere aiutati dal luogo sacro a realizzare pienamente la propria esistenza completa, a realizzarsi cioè nella pienezza e nella ricchezza dei valori umani che l’Induismo addita ai propri fedeli e che vanno, ripeto, dal piacere alla conquista del benessere, delle ricchezze e alla conquista poi del distacco e della maturità spirituale. Le foto fra l’altro rappresentano molto bene questa varietà di situazioni, da quella dei naga, gli asceti nudi, a quelle dei sadhu, cioè i samnyasin, vuoi vishnuiti, vuoi shivaiti a quelle, invece, delle persone come noi, che visitano il luogo sacro per essere
soccorsi e compresi nella loro aspirazione a un’esistenza che assicuri il paradiso e che assicuri una rinascita in condizioni spiritualmente e anche concretamente migliore. Per dirla con una formula indiana: bukti e mukti. La formula è di ascendenza popolare, probabilmente tantrica. Bukti è un sostantivo che significa godimento, piacere e mukti è un sinonimo di moksha, liberazione. È un modo tipicamente sanscrito, per così dire, questo di esprimersi, in quanto cambiando una sola consonante, per di più sono due consonanti che si assomigliano, si enunciano due concetti di significato opposto. Abbiamo parlato di queste festività, di queste processioni, di questi incontri periodici del grande ciclo della Kumbha Mela e delle celebrazioni dei tirtha e rispecchiano, secondo me, la totalità dei valori hindu e la loro profonda e contraddittoria relazione. In questo, a mio modo di vedere, risiede il fascino segreto dell’Induismo. L’Induismo cioè prefigura un itinerario umano e spirituale che prevede la realizzazione di tutte le dimensioni della vita che noi chiamiamo terrena, mondana, fenomenica, come volete e al tempo…e lo prevede non rozzamente, materialisticamente ma lo prevede proprio come adempimento spirituale e al tempo pone come fine ultimo il superamento di tutto questo. La magia, secondo me, dei luoghi sacri e dell’Induismo in generale, è che nessuno di questi due aspetti prevale mai. Cioè non c’è mai, in questa immensa e straordinaria costellazione che è l’Induismo, né un momento in realtà, né una zona in cui i valori della morte, diciamo, cioè della morte in quanto accesso alla liberazione, prevalgono su quelli della vita e non ce ne è mai nemmeno uno nel quale i valori esclusivamente mondani schiaccino quelli spirituali. Ecco, a mio modo di vedere, è in questo equilibrio, magico in un certo senso, sempre pericolante, come è l’itinerario interiore dell’uomo e sempre rinnovato e sempre seguito che sta il fascino irresistibile di queste immagini, in un certo senso che lo rappresentano e, più profondamente dell’Induismo. Vi ringrazio dell’attenzione.

Per il diario della mia esperienza con Jasmuheen al Kumbha Mela clicca qui (prima parte) e qui (seconda parte)