TRANSUMANZA

QUESTO BLOG E' IN VIA DI SUPERAMENTO. NE STIAMO TRASFERENDO I POST MIGLIORI SUL SITO DI VIVEREALTRIMENTI, DOVE SEGUIRANNO GLI AGGIORNAMENTI E DOVE TROVATE ANCHE IL CATALOGO DELLA NOSTRA EDITRICE. BUONA NAVIGAZIONE!

domenica 26 settembre 2010

Bal Ashram, newsletter settembre 2010.

Cari amici,
“unnis hoghe – saremo in diciannove”! Queste le parole di Soham quando abbiamo dato ai bambini notizia che un nuovo fratellino stava per arrivare!
Il 12 settembre abbiamo ricevuto una telefonata da Child Line che ci comunicava di aver trovato un bimbo e che il magistrato stava preparando le carte per la sua ammissione a Ramnagar (l'orfanotrofio governativo). Così ci siamo recati nell'ufficio di Child Line che lavora come un centro di prima accoglienza ed abbiamo dato la nostra disponibilità ad accogliere nella famiglia del Bal ashram il bimbo. Lì, abbiamo incontrato e conosciuto Sonu! Accettata la nostra richiesta e preparate tutte le pratiche, il 14 mattina siamo tornati negli uffici di Child Line.
Sonu ci aspettava, silenzioso e quieto. Non ha parlato per un po', accennando un primo sorriso solo una volta seduto in macchina!
Sonu ha all'incirca sette anni. Morto il padre qualche anno fa, la madre lasciò il villaggio assieme a lui. Vivevano facendo l'elemosina nella zona vicino alla stazione. La madre, ammalatasi, fu portata da qualcuno all'ospedale
alla fine di agosto. Lì, è mancata, lasciando Sonu solo. Il personale dell'ospedale vedendo che nessuno veniva né a riconoscere la donna né a prendersi cura del bambino, ha chiamato Child Line.
Sonu ha evidenti traumi fisici ed emotivi e probabilmente un lieve ritardo mentale anche se abbiamo imparato a non delineare alcun profilo dei bambini se non dopo alcuni mesi di cure ed attenzioni adeguate. Come spesso accade all'arrivo,
lo rende molto sereno la possibilità di mangiare tranquillo. Il suo sguardo fa trasparire la paura che qualcuno possa arrivare a portargli via il piatto. Osserva attento e soprattutto incredulo tutto ciò che accade attorno a lui.
L'accoglienza dei bambini è stata meravigliosa. Ognuno, con le proprie personalità, ha dimostrato affetto e cercato di aiutare il piccolo ad ambientarsi nella sua nuova casa. Sonu, non abituato ad interazioni così umane reagisce a volte con sospetto e diffidenza, a volte lasciandosi andare a disarmanti momenti di grande dolcezza e gentilezza.
Non è mai andato a scuola, ma non appena ha visto gli altri prepararsi il banco e sedersi per fare i compiti ha chiesto anche lui un kit scolastico completo!
E possiamo dire che dopo la consueta rapata rituale(nonché trattamento risolutivo per i pidocchi), Sonu è entrato a tutti gli effetti nella famiglia.
Ora sono in corso vari accertamenti medici per intervenire in caso di particolari problemi...ma soprattutto adesso è il momento per Sonu di cominciare ad essere di nuovo un bambino, riconquistandosi gli anni perduti.

All'ashram abbiamo anche un nuovo amico; un amico notturno. Si, è vero che bisogna andare a letto presto ma da quando abbiamo conosciuto l'amico gufo non si va più a dormire senza averlo prima salutato. Un bambino, prima di cena sta di vedetta e lui puntuale arriva ogni sera per appollaiarsi di fronte alla cucina in attesa di
raminghi topini e serpentelli. Le aree verdi dell'ashram sono sempre più rigogliose e tanti animali le scelgono per vivere. Anche nelle ore diurne la natura elargisce
costantemente immagini poetiche, per l'occhio che sa fermarsi e coglierle all'improvviso. Ogni mattina, dopo il pasto dei cani, ecco arrivare tutti assieme pronti a condividere ciò che rimane: corvi, scoiattoli e decine di diverse
specie di uccelli. E' come avere un libro delle favole di Esopo sotto gli occhi!
Dopo aver seminato l'erba nell'ultimo spazio disponibile dell'ashram abbiamo pensato di cominciare a “rinverdire” il perimetro delle mura esterne. La strada è sempre una discarica a cielo aperto e nessuno si cura delle cosiddette aree pubbliche. Abbiamo ripulito un piccolo lembo di terra tra la strada ed il muro di cinta dell'ashram di fronte all'entrata della scuola, così da poter piantare degli alberi.
Ed anche sul tetto si lavora, nonostante la pioggia battente, per la costruzione
di un magazzino e dispensa per le granaglie ed il riso.
Le donne del Progetto Shakti sono impegnate invece ad imparare come riempire in un prossimo futuro la nuova dispensa! Un corso di 1 mese tenuto da un professore di scienze alimentari dell'università sulla preparazione e conservazione naturale dei cibi: marmellate, salse dolci e piccanti. Alla fine verrà loro rilasciato un diploma.
La settimana scorsa abbiamo organizzato un'uscita con gli studenti della classe terza e tutti i bambini del Bal Ashram. Quattro bambini dell'ashram frequentano la classe terza all'Anjali school.
Si è tenuta ad Assi ghat una mostra di due giorni sulle rappresentazioni di Ganeshji (il dio con la testa di elefante) ed abbiamo pensato di portare gli studenti più grandi in visita alla mostra.
Siamo partiti come piccolo gruppo dall'ashram e fermandoci nelle case degli studenti lungo la strada la comitiva è piano piano cresciuta.
E' stata un'occasione per incontrare i loro genitori e vedere dove abitano alcuni dei nostri nuovi studenti.
Per i nostri bambini è stato assai istruttivo vedere da vicino alcune baracche di
lamiera e cartoni in cui abitano i loro amici. Bambini che a scuola sono a dir poco brillanti nonostante le difficoltà e le condizioni precarie di vita. Per l'occasione i genitori avevano preparato i bambini con i vestiti più belli.
Il pomeriggio si è concluso con un'attesa del tramonto in riva al fiume mangiando un
ghiacciolo al mango.

E dal Bal Ashram vi salutiamo con Ravi che accompagna Sonu a scuola per la prima volta e regalandovi i fiori da parte di Ciampa (una bimba della classe KG). Vive nelle baraccopoli vicino alla colonia dell'ashram, sola con la nonna. Mai fatta un'assenza, si lava la sua divisa ogni giorno, ed arriva sempre cinque minuti prima per aspettare la maestra davanti alla porta della classe e donarle i fiori che raccoglie lungo la strada.....
A presto dal Bal Ashram, Camilla e Lorenzo

venerdì 24 settembre 2010

LUNA PIENA -- giovedì 23 settembre 2010 -- da Ajahn Munindo

Un solo giorno vissuto
con chiara intenzione
e profondo impegno
ha più valore di cento anni
vissuti in pigra passività.

Dhammapada strofa 112

Ci sono periodi in cui siamo spronati dall’ispirazione a impegnarci.
In altri è la disperazione a motivarci. Entrambe ci fanno scegliere il
sentiero della consapevolezza qui e ora con impegno. Se esitiamo solo
perché non otteniamo quel che vogliamo o otteniamo quel che non
vogliamo, diventiamo irresoluti. Essere pienamente presenti a questo
momento non significa ignorare il passato o far finta che il futuro
non esista. Significa che non ci perdiamo nelle storie che la mente
crea. Impariamo dal passato e ci prepariamo per il futuro mettendo i
piedi saldamente sul terreno del qui-e-ora. Con crescenti momenti di
intenzione consapevole superiamo le tendenze prosciuganti
dell’autocommiserazione e ci rinfreschiamo nella verità priva di un sé
di ciò che è.

Con Metta

Bhikkhu Munindo

(Ringraziamenti a Chandra per la traduzione)

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Santacittarama
Monastero Buddhista
02030 Frasso Sabino (RI) Italy

Tel: (+39) 0765 872 186 (7:30-10:30, 7:30-8:30 durante il ritiro)
Fax: (+39) 06 233 238 629

sangha@santacittarama.org
(alternativa): santa_news@libero.it


www.santacittarama.org
www.forestsangha.org (portal to wider community of monasteries)
www.fsnewsletter.org (newsletter in English)
www.dhammatalks.org.uk (audio files)

martedì 21 settembre 2010

Sfuma l'esilio nepalese.

Vivere altrimenti ha ottenuto ieri un visto di tre anni (con entrate multiple) per l’India. E’senz’altro un’ottima acquisizione per il nostro progetto esistenziale e divulgativo che lavora in stretta connessione con la Om International Yoga Health Society di Varanasi. Di ritorno nella città della luce (traduzione di Kashi, antico nome di Varanasi), nei prossimi giorni, riprenderanno i lavori per il testo Yoga from authentic Indian tradition, iniziati in occasione della preparazione dello Smriti Europe Tour e per Con Jasmuheen al Kumbha Mela, quasi in dirittura di arrivo.
Il centro della Om International, mentre io ero a Kathmandu in attesa del visto, ha avuto a sua volta dei progressi. Ora abbiamo anche il tavolo (fatto apposta da un falegname della città per eludere i costi sostenuti dei tavoli da catalogo) per i trattamenti di Panchkarma e Shirodara (branche dell’ayurveda in cui si è ultimamente specializzata Smriti) e per altri tipi di massaggio (ne approfitterò senz’altro appena rientrato).
La mia esperienza nepalese è stata molto affascinante ed ha prodotto nuovi interessanti riferimenti per il vivere altrimenti. Stanchi della routine varanasina, potremo difatti approfittare dello Shambhala Resort, un posto tranquillo e con un’eccellente qualità recettiva (con pacificanti thanka buddisti alle pareti) poco distante da Kathmandu, ottima base di partenza per passeggiate in montagna (nella zona del famoso monastero buddista vajrayana di Kapan) e a mezzora di autobus o di taxi dal centro cittadino.
Si sono inoltre aperte, in città, nuove ipotesi di filoni di business con cui integrare l’attività editoriale ma è questo un discorso ancora del tutto prematuro.
Viverealtrimenti, difatti, sarà presto in Italia (tra meno di un mese) per un’agenda di presentazioni e promozioni dei libri già pubblicati e per avviare nuovi progetti editoriali con autori italiani.
L’attività editoriale, dunque, accanto a quella yogica di Smriti, è già sufficientemente impegnativa, al momento ma possiamo senz’altro dire che alcuni importanti semi sono stati piantati.
Il conseguimento del visto ha richiesto un mese ed una settimana, speso in due diversi paesi asiatici (in Sri Lanka, ospitato splendidamente a Sarvodaya, prima che in Nepal). E’ stata una prova importante e ne siamo usciti fuori bene. Spero davvero che questo sia di buono auspicio per affrontare a testa alta le altre sfide che il vivere altrimenti ci porterà.
Tutto il meglio.

In coda all'esilio nepalese; ascoltando Signora Bovary di Francesco Guccini
Oggi il sole è proprio bello, fuori dello Shambhala Resort e so che la sua presenza non sarà stabile. Prima o poi, in giornata, il monsone scoccherà la sua ora quotidiana e sarà, nuovamente, pioggia.
Il monastero di Kapan è poco distante, ho un bel libro da riconsegnare alla sua biblioteca, mi dovrei muovere ma, dopo colazione, attendo.
Attendo ascoltando per l’ennesima volta quello che considero l’album più riuscito di Francesco Guccini: Signora Bovary. E’ giunto dunque il momento, oggi, libero da kafkiani impegni burocratici, di scrivere qualcosa al riguardo, in particolare su due brani che considero autentici capolavori: Signora Bovary e Van Loon.
Avrei bisogno della mia biblioteca domestica italiana, con un bel libro su Francesco Guccini comprato a Napoli tanti anni fa ma vedrò di andare a memoria (i testi li conosco a menadito e, per quanto riguarda qualche citazione dal libro, spero di non prendere cantonate).
Iniziamo con Signora Bovary:

Ma che cosa c’è, in fondo a quest’oggi,
di mezza festa e di quasi male,
di coppie che passano sfilacciate
come garze stese contro il secco cielo autunnale.
Di gente che si frantuma in un fiato,
senza soffrire, senza capire
e i tuoi pensieri sono solo uno iato
tra addormentarsi e morire…

Trovo sia un inizio semplicemente straordinario, straordinariamente denso: “ma che cosa c’è”: il quesito esistenziale primo di ogni essere senziente, un quesito in cui si può anche ravvisare la grande tragedia dell’uomo occidentale, figlio dell’illuminismo, secolarizzato dunque, necessariamente, disorientato. Un quesito che, con grandi probabilità, resterà senza risposta, orfano di una tradizione sapienziale che abbia retto alla prova del tempo, la stessa che nel mistico oriente libera gli uomini da tormentati quesiti di questo genere, rendendoli forse più ebeti ma senz’altro più sereni.
“Che cosa c’è in fondo a quest’oggi, di mezza festa e di quasi male”, in fondo ad una giornata di cui si sente la sostanziale inutilità, sul cui sfondo passeggiano omologate coppiette di provincia, quasi identiche le une alle altre. Passeggiano “sfilacciate”, tradendo, a ben vedere, un irreparabile senso di noia, senza indurre un sentimento che non sia di irritata indifferenza. “Gente che si frantuma in un fiato”, la cui inquietante inconsistenza porterebbe quasi, presuntuosamente, a classificarla come “de-cerebrata”. Preservata, in quanto tale, dalla sofferenza ma anche da forme pur semplici di comprensione, viva in un limbo di opaca insensatezza ed inutilità.

Ma che cosa c’e’ in fondo a questa notte,
quando l’ora del lupo guaisce
e il nuovo giorno non arriva mai, mai
e il buio e’ un fischio lontano che non finisce,
di minuti lunghi come il sudore,
di ore che tagliano come falci
e i tuoi pensieri sono un cane in chiesa
che tutti prendono a calci…


Lo stesso quesito si propone anche di notte, magari in una notte insonne quando si brama un nuovo giorno, una nuova opportunità di vita che però non arriva mai ed i minuti, le ore pesano come macigni, per usare un’immagine di Buckowski “ti si strascinano addosso come merda bagnata” ed i tuoi pensieri sono pensieri sporchi, da insonne, da persona fuori dei cicli naturali di veglia e sonno, di persona “contronatura”, macchiata da qualche peccato - originale o meno che sia - e come tali sono “un cane in chiesa”, preso, naturalmente, a calci.

Ma cosa c’è, cosa c’è:
atri a piastrelle, di stazioni secondarie,
strade più strade, di avventure solitarie,
clown della notte, valige vuote,
piene di trucchi per tragedie immaginarie

Ed il quesito continua ad assillare il cantautore, il poeta e c’è un cenno minimo di risposta, probabilmente del tutto inadeguata. Cosa c’è? Un pallido tentativo di ricerca. Di cosa? Di riscatto o semplicemente di fuga? “Atri a piastrelle di stazioni secondarie”, quelle dove finiva probabilmente Gucccini, ubriaco, nel corso delle sue notti insonni. Immagine di un minimalismo feroce, di una feroce e vagamente romantica desolazione, tanto più feroce se si ha presente cosa lo ha spinto in quelle stazioni secondarie, il solito, tremendo quesito, il koan zen: cosa c’è?! Ma non ci sono solo stazioni secondarie, ci sono i compagni di fuga del cantautore, i “clown della notte” che lui ha immortalato in altri pezzi memorabili come Per quando è tardi o L’ubriaco.
Ci sono “strade più strade di avventure solitarie” e qui l’orizzonte può, un minimo, aprirsi. Può aprirsi al viaggio, alla scelta coraggiosa di lasciarsi una vita alle spalle, forse solo temporaneamente e mettersi in cammino verso altro e poi, verso straordinario: “valige vuote, piene di trucchi per tragedie immaginarie”. Valige del tutto vuote di senso, di qualcosa che abbia una minima sostanza, una minima autenticità e piene, invece, delle maschere del perbenismo provinciale (la dimensione di riferimento di Guccini è spesso la provincia) che contribuiscono in maniera cruciale a depauperare la vita di un senso qualsiasi riportando violentemente alla ribalta il leitmotiv del brano: cosa c’è?!

telecomandi per i quotidiani inferni,
battute argute di architetti postmoderni,
amanti andate, piaceri a rate,
pallottolieri per contare estati e inverni.

e ancora qualche timida, del tutto inadeguata risposta. Cosa c’è? Tante cose: telecomandi per i quotidiani inferni (si commenta da sola), battute argute di architetti post-moderni, glimpses di vita quotidiana, di insulsaggini quotidiane per cui gli anni finiscono per essere, infantilisticamente, pallottolieri con cui contare, in stato semiparanoico, estati e inverni e di nuovo il leitmotiv, per forza:

Ma che cosa c’è?!
Proprio in fondo in fondo,
quando bene o male faremo due conti
e i giorni goccioleranno come rubinetti nel buio
e diremo un momento, aspetti, per non esser mai pronti.
Signora Bovary coraggio pure
tra gli assassini e gli avventurieri
in fondo a quest’oggi c’è ancora la notte,
in fondo alla notte c’è ancora, c’è ancora….


Qui emerge nuovamente netta, a mio parere, la tragedia dell’uomo occidentale migliore, che si interroga ma non ha fedi (“io parlo sempre tanto ma non ho ancora fedi”, commentava Guccini in un’altra canzone). Non solo non ha fedi, cosa più tragica non ha nemmeno la conoscenza. Non la cultura, di cui Guccini è stracolmo, la “gnosi”, la conoscenza di quanto regola la vita e la morte e allora, cieco di ignoranza (l’avidhya della tradizione hindu), si chiede: “cosa c’è…proprio in fondo in fondo”. C’è tutto lo sgomento, la disperazione di chi è proteso a conoscere (ad una conoscenza salvifica) e non riesce a cogliere un indizio pur vago. Forse dovrebbe semplicemente smettere di pensare, di usare l’emisfero sinistro del cervello, fare quello che fece Buddha, sedere sotto un albero, in silenzio, avendo la pazienza tutta orientale di lasciare che la verità si manifestasse ai suoi occhi chiusi.
Qui invece, “quando bene o male faremo due conti”, “i giorni goccioleranno”, ancora paranoicamente, “come rubinetti nel buio” (immagine da cella o da ospedale notturni) e saremo talmente atterriti dal grande mistero, dall’ignoto che non ci sentiremo mai pronti per affrontarlo.
La canzone finisce, tuttavia, con un invito al coraggio, forte della grama sicurezza che “in fondo a quest’oggi c’è ancora la notte” (“ogni notte è un buco nero da riempire”, canta ancora Francesco). “In fondo alla notte c’è ancora, c’è ancora…” il sospeso potrebbe forse lasciare qualche speranza e tuttavia l’epilogo può somigliare tanto ad un cane che si morda la coda, nell’emersione implicita, ancora una volta, del koan ossessivo: cosa c’è?

Van Loon
Stando a quel che ricordo lessi sul libro menzionato in apertura, Van Loon starebbe per “fellone” ed era il nick name (per usare un termine del moderno linguaggio informatico) del padre di Francesco Guccini. Un padre che visse un periodo in un campo di concentramento, nel corso della seconda guerra mondiale, di cui si persero a lungo le notizie e che Guccini conobbe già grandicello:

Van Loon, uomo destinato, direi da sempre, ad un lavoro più forte
che le sue spalle o la sua intelligenza non volevano sopportare,
sembrò quasi baciato da una buona sorte
quando dovette andare.
Sembra però che non sia mai entrato nella storia,
sono cose che si sanno sempre dopo,
d’altra parte nessuno ha mai chiesto di scegliere
neanche all’aquila o al topo.
Poi un certo giorno timbra tutto un avvenire
od una guerra spacca come una sassata
ma ho visto a volte che anche un topo sa ruggire
ed anche un’aquila…precipitata.

Quanti anni, giorno per giorno,
dobbiamo vivere con uno,
per capire cosa gli nasca in testa, cosa voglia o chi è,
turisti del vuoto, esploratori di nessuno
che non sia io o me.
Van Loon viveva e io lo credevo morto
o, peggio, inutile solo per a distanza
tra i suoi miti diversi e la mia giovinezza e superbia d’allora,
la mia ignoranza.
che ne sapevo di quanto avesse navigato,
con il coraggio di un caboto fra le schiume,
di ogni suo giorno e che uno squalo è diventato,
giorno per giorno,
pesce di fiume.


Questa canzone la sento da circa 20 anni ed ogni volta riesce ancora a commuovermi. Straordinario come la singola vicenda umana diventi un bandolo per considerazioni che trascendano la specifica individualità, illustrando problematiche universalmente umane.
Da questi primi versi iniziano ad emergere i primi vaghi lineamenti della figura paterna, distante anni luce dalla giovinezza superba del cantautore.
Ricordo questa canzone la sentivamo spesso assieme ad una mia passata fidanzata che aveva un padre simile a Van Loon. Uno di questi uomini di roccia, ossificati nei propri principi, impenetrabili e tuttavia, come vedremo, non privi di spunti metafisici, non incapaci di assurgere, forse temporaneamente e limitatamente, alla figura di maestri. Un uomo, il padre di Guccini, che aveva navigato con grande coraggio e, in questa sua navigazione, piegato da questa sua navigazione, aveva subito una significativa metamorfosi: da squalo, uomo forte che poteva ragionevolmente incutere terrore, era diventato un dimesso “pesce di fiume”.

Van Loon, Van Loon,
che cosa porti dentro quando tace,
la mente e la stagione si da pace,
insegui un’ombra o quella stessa pace,
l’hai in te.

Vorrei sapere
che cosa vedi quando guardi attorno,
lontani panorami o questo giorno
è già abbastanza è come un nuovo dono,
per te.


In questi versi a mio parere Guccini raggiunge genuine vette spirituali. Si apre a quella che è una dimensione oltre il pensiero ordinario, che subentra quando la mente tace e “la stagione si da pace”. Una pace che ritrova nella figura del padre, poco propenso alla speculazione, uomo semplice, poco mentale e proprio per questo in grado di realizzare in se stesso quella stessa pace (diventare “uno” con essa) che ritrova all’esterno, magari in un tranquillo pomeriggio di bassa montagna.
Probabilmente Guccini non riesce a nutrire una propria dimensione spirituale (non lo conosco di persona ma conosco molto bene le sue canzoni) ma rivela qui la profonda sensibilità di chi sa ritrovarla, pur in modo del tutto indecifrabile, in un altro.
A questo punto riemerge l’intellettuale illuminista, secolarizzato: “vorrei sapere (vorrei cogliere con il raziocinio, vorrei conoscere in almeno qualche dettaglio) che cosa vedi quando guardi attorno”. Siamo di nuovo alle prese con l’indecifrabilità di personaggi delle nostre passate generazioni che, nel momento in cui guardano attorno, non si sa cosa vedano, non si sa quali emozioni abbiano interiormente suscitate. “Lontani panorami e questo giorno, è già abbastanza è come un nuovo dono, per te”: un verso di altissima levatura spirituale. Guccini è ammaliato e confuso dall’uomo che contempla, inspiegabilmente sereno, lontani panorami o anche lo stesso giorno in cui sta vivendo, che non ha nulla di particolare, nulla di eccezionale e tuttavia lo vive con un’intima, profonda gratitudine, umilmente e maturamente consapevole della straordinaria pregnanza del dono, temporaneo, di vivere.

Van Loon, Van Loon,
a cosa pensi in questo settembrino,
nebbieggiare alto che macchia l’appennino,
ora che hai tanto tempo per pensare
ma a chi…

Vai vecchio vai,
non temere che avra’ una sua ragione,
ognuno ed una giustificazione
anche se quale, non sapremo mai


Guccini non riesce proprio a disidentificarsi dal pensiero. Incarna pienamente la tragedia dell’uomo occidentale che affronta la vita pensando e proiettando pensieri anche sugli altri, incapace di cogliere, ad esempio, la profonda pregnanza, riarmonizzante, del silenzio e della pura coscienza. Tuttavia, prende corpo, negli ultimi versi, una sorta di abbozzo di fede. Una sorta di resa all’imponderabile, all’indicibile che, anche da un punto di vista razionale, non può non avere una sua ragione ed una giustificazione, pur inaccessibile alla mente razionale.

Ora Van Loon si sta preparando piano al suo ultimo viaggio
I bagagli già pronti da tempo, come ogni uomo prudente,
o meglio il bagaglio quello consueto di un semplice o un saggio
cioè poco o niente
e andrà davvero in un suo luogo, una sua storia,
con tutti i libri che la vita gli ha proibito,
con vecchi amici di cui ha perso la memoria,
con l’infinito…dove anche su quei monti nostri
e’ sempre estate
ma se uno vuole quell’inverno senza affanni
che scricchiolava in gelo sotto le chiodate scarpe di un tempo
dei suoi dicott’anni, dei suoi diciott’anni…


La conclusione non può che portarci nuovamente a contatto con la grande, probabilmente la più grande, problematica dell’essere umano: la morte, l’ultimo viaggio. Ultimo viaggio cui Van Loon, uomo semplice e saldo, un tempo squalo oggi con la profonda acquisita umiltà del pesce di fiume, e’ pronto da tempo. Cosa si porterà con se? Coerentemente, il bagaglio consueto di ogni semplice che, in quanto tale, ha forse più possibilità di un erudito di essere anche saggio: poco o niente.
Il finale non ha bisogno, a mio vedere, di alcun commento, per non rovinare la meravigliosa tensione lirica e l’epilogo poetico ed amaro: l’immagine di Van Loon, di nuovo giovane, appena diciottenne, che si incammina sui monti tanto cari anche a Francesco per averci speso l’infanzia e la giovinezza (fatta di “risse terrose, di campi, cortili e di strade”). Facile immaginarlo accessoriato con uno zaino militare, oltre alle scarpe chiodate sotto le quali scricchiola il gelo di un inverno senza affanni, alla volta di un dolorosissimo fronte di guerra.

Credo meriti citare, a questo punto, il grande Fabrizio De Andrè, il quale diceva: “alla fine di ogni concerto sarei tentato di dire al pubblico: tutto quello che avete sentito, è tutto falso, vi ho proposto una realtà sognata, una sorta di fiaba”. Allo stesso modo, mi viene da dire: quello che ho scritto arrogandomi il diritto di fare considerazioni sui capolavori di un altro non ha davvero nulla di oggettivo, è solo il prodotto di una risonanza che sto avendo da anni con questi due brani e che ho voluto condividere con i lettori di Viverealtrimenti.
Mi scuso con Franscesco Guccini (che spero un giorno di conoscere anche per inserirlo in un prossimo progetto editoriale) se ho azzardato giudizi impropri o mi sono permesso di entrare nel suo intimo.
Il sole continua ad indugiare dietro le spesse tende del mio resort nepalese. Pensando al monastero di Kapan dove sono diretto questa mattina, ai monaci in vestaglia bordeaux e al loro essere spesso al di sotto delle aspettative che nutriamo nei loro confronti, ho apprezzato ancora di più la genuinità della ricerca esistenziale che emerge dai due brani citati.
Ho pensato quanto spesso, da questa parte del mondo, la gente viva in monasteri perchè vi è stata messa, spesso dall’infanzia, da altri: genitori, tradizione, miseria e dunque quanto alcune figure di monaci possano aver preso i trucchi dalle valige vuote di Signora Bovary, ad uso e consumo di “tragedie immaginarie”.
E tuttavia, in posti come Kapan ed in tanti altri in Oriente, il quesito ossessivo “cosa c’è” si scioglie spesso come neve al sole, lasciando spazio ad un’impercettibile eco, nel quasi silenzio mentale, che si sostanzia in una mite ma determinata assunzione: “qualcosa c’è!” ed è probabilmente per questa ragione che mi sono così intestardito a preferire questi luoghi a quelle che io considero, oramai, “le secche dell’Occidente”.

domenica 19 settembre 2010

Eventi San Rocco Community su progetto ecovillaggio a Schio (VI).

Di seguito un complesso di iniziative di una nuova esperienza comunitaria, recentemente inserita (clicca qui) sul sito-database di Viverealtrimenti

Domenica 26 settembre, ore 9
Open Day San Rocco Community

“Aspettando la festa…” escursione guidata a San Rocco del Tretto (Schio – VI), fra contrade e vecchi sentieri di montagna.
Durata prevista: 3,00 ore ca. Dislivello in salita metri: 500 ca
per maggiori informazioni: http://sanroccocommunity.org/attivita/insieme-attorno-a-noi/
Andrea (328.9150076), andrea@sanroccocommunity.org

Domenica 26 settembre, ore 15
Open Day San Rocco Community

Incontro aperto al pubblico per presentare le attività della community e gli sviluppi del progetto ecovillaggio di San Rocco del Tretto, a Schio (VI)
Info: www.sanroccocommunity.org

Sabato 9 ottobre, ore 20.15
Festa della Sostenibilità

Palazzo Conte, Largo Fusinelle, Schio (VI)
Convegno Abitare secondo natura: la riscoperta di paglia e argilla come materiali costruttivi
Relatori: architetti Werner Schmidt e Gaia Bollini. Modera arch. Claudio Pellanda
Info: www.schiosostenibile.it/festa/

Domenica 10 ottobre, ore 15 – 19
Festa della Sostenibilità

Palazzo Conte, Largo Fusinelle, Schio (VI)
Convegno Abitare secondo natura: presente e futuro degli ecovillaggi in Italia
Il progetto di San Rocco Community e le esperienze di eco villaggi nel nostro Paese. Intervento musicale di Giuseppe Dal Bianco in “Perpetuo Vagare”.
Info: www.schiosostenibile.it/festa/
Vd. anche: http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/449_news/182269_schiomuri_di_paglia_per_le_caseecologiche/

Grazie

Andrea Stagliano
San Rocco Community
Cell. 3289150076
andrea@sanroccocommunity.org
www.sanroccocommunity.org

venerdì 17 settembre 2010

Un seminario con Patch Adams

Il Conacreis Toscana e il Conacreis Nazionale con il patrocinio di SIOMI (Società Italiana di Omeopatia e Medicina Integrata) e ARS Toscana (Agenzia Regionale di Sanità) presentano un seminario con Patch Adams, il medico e attivista americano famoso per la terapia del sorriso, che si terrà domenica 26 settembre 2010 dalle 14.30 alle 19.30, presso la sede dell'European University Institute - Badia Fiesolana - Via dei Roccettini, 9 - 50014 San Domenico di Fiesole (FI)
Il seminario si intitola "Qual è la tua strategia d'amore?" e sarà in lingua inglese con traduzione consecutiva in italiano a cura di Cristina Finotti.
Hunter Patch Adams è il fondatore del Gesundheit! Institute, una comunità di medici olistici che promuovono il buonumore come elemento fondamentale della terapia e l'arte medica come cura del malato anziché della malattia. Alla sua vita è dedicato il film del 2001 Patch Adams, di Tom Shadyac, con Robin Williams nel ruolo di Patch.
Il seminario è aperto a tutti, dai 16 anni in su. Si consiglia di indossare abiti comodi.
E' necessaria la prenotazione (clicca qui per iscriverti). I posti sono limitati.
Le operazioni di accreditamento al seminario saranno possibili dalle ore 13.15 alle ore 14.15; per facilitare le pratiche di segreteria consigliamo ai soci Conacreis di presentarsi muniti di tessera 2010.

Per informazioni: segreteria@conacreis.it - tel. 0125 789 773 (dalle ore 10 alle 12 e dalle 16 alle 18 dal lunedì al venerdì) tel. 0125 789773 fax 0125 789800 e-mail: segreteria@conacreis.it www.conacreis.it

martedì 14 settembre 2010

Smriti Europe Tour.

Lo staff della Om International Yoga Health Society di cui fanno parte il Progetto Viverealtrimenti (nelle persone di Manuel Olivares e Diana Passatutto), Mariët Bakker dello Svaha Yoga Shala di Amsterdam e Vincent Destoop, presidente dell’ABEPY (Association Belge des Enseignants et Pratiquants du Yoga) ha il piacere di dare il benvenuto, il prossimo 28 ottobre, alla yogini Smriti Singh in Europa.
Merita menzione che Smriti, oltre ad essere un’eccellente maestra di yoga, è la nipote di Ananda May Ma, la più importante santa dell’induismo contemporaneo, considerata la “compagna spirituale” di Paramahamsa Yogananda, autore del best seller Autobiografia di uno yogi.
Sono già stati fissati quattro workshop di questo nuovo tour europeo di Smriti (il precedente ha avuto luogo l’anno scorso in questo periodo): il primo da Sabato 30 Ottobre a Lunedì primo Novembre presso il Centre Santosha di Jodoigne (Bruxelles), il secondo da Sabato 6 Novembre a Domenica 7 presso l’Associazione Le Nuvole di Civita Castellana (VT), il terzo da Sabato 13 Novembre a Domenica 14 presso lo Svaha Yoga Shala di Amsterdam ed il quarto da Sabato 20 Novembre a Domenica 21 presso l'Ananda Ashram di Milano.

I workshop inizieranno con il canto di un mantra (più in basso sono segnalati i mantra usati con maggiore frequenza da Smriti durante le sue classi di yoga o i suoi workshop). Seguirà una breve lezione introduttiva sull’hatha yoga e, dopo un opportuno riscaldamento corporeo, Smriti guiderà i partecipanti nella pratica delle asana, le posture yogiche. Seguiranno esercizi respiratori (pranayama) integrati con specifici mudra (in sanscrito “sigillo”; sono gesti simbolici in grado di portare benefici sul piano fisico, energetico e/o spirituale) e bandha (il termine sta per “stringere” o “serratura” e descrive l'azione fisica necessaria per eseguire queste pratiche; le contrazioni fisiche di alcune aree corporee hanno un’influenza estesa su tutto il corpo psichico o “pranico”) propedeutici ad esperienze di dhyana (meditazione).
Le pratiche hathayogiche di asana, pranayama, mudra e bandha saranno introduttive ad altre proprie del kundalini yoga, ad uno specifico lavoro sui chakra e sull’energia kundalinica mantenendo la mente costantemente focalizzata sul reale obiettivo dello yoga: l’unione del sé individuale con il Sé universale.

I workshop che si terranno in Italia dureranno complessivamente 9 ore: Sabato dalle 16.00 alle 19.00, Domenica dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 17.00. I costi saranno: 40 euro per chi partecipa solo il Sabato, 70 euro per la sola Domenica e 100 euro per l'intero week-end.Per maggiori informazioni, contattare Adele Caprio scrivendo a yoga@lenuvoledicivita.it per il workshop che si terra' in provincia di Viterbo o direttamente l'Ananda Ashram per il workshop che si terra' a Milano.


Di seguito alcuni estratti dal sito www.omyogainternational.com, ovvero un’autopresentazione di Smriti ed una breve illustrazione degli insegnamenti che impartisce nella sua classe di yoga tipo e della Society di cui è fondatrice ed anima carismatica.

Smriti un’autopresentazione

Sono nata nel nord dell’India, nella città santa di Varanasi (un tempo conosciuta come Kashi: la città della luce) dove gli hindu sperano di morire per l’ultima volta.
Era il 3 dicembre 1976.
Mia madre è una buona yogini ed ha iniziato ad insegnarmi le asana quando ero ancora bambina.
A 16 anni ho cominciato a frequentare il Besant Kanya Mahavidhyalya (un college fondato da Annie Besant, personaggio particolarmente attivo nell’ambito della società teosofica) dove ho approfondito lo studio del sanscrito.
Nello stesso tempo sono stata eletta Miss Kashi e dunque praticavo costantemente le asana per mantenere la linea, lavoravo in televisione come attrice e giovane giornalista oltre a partecipare ad alcune sfilate di moda.
A 18 anni ho iniziato a studiare storia antica dell’India, filosofia, hindi alla BHU (Benares Hindu University). Alcuni anni dopo ho studiato sociologia, storia e letteratura hindi alla Mahatma Gandhi Kashi Vidhyapeath ed ho seguito un corso di sanscrito alla Sanskrit University finalizzato alla migliore recitazione dei mantra.
A 23 anni ho iniziato a lavorare nella Mother Mary English School dove ho avuto la mia prima esperienza come insegnante di yoga.
Nello stesso periodo ho avuto seri problemi di spondilite e non riuscivo a respirare dalla narice sinistra, dunque ho iniziato ad integrare la pratica delle asana con alcuni tradizionali esercizi respiratori conosciuti, nella scienza dello yoga, come pranayama.
Feci un’intervento al naso ma senza successo, dunque ho imparato lo shatkarma (sei esercizi di purificazione interna: neti, dhauti, nauli, basti, kapalbhati, trataka) nell’International Yoga Ashram Nagwa Assi e, in questo modo, ho risolto tutti i miei problemi.
Ho iniziato a lavorare in un centro di recupero per tossicodipendenti come yoga-terapeuta. Ho continuato per 5 anni avendo molto successo: molte persone sono state recuperate. Nel 2004 ho fondato l’ONG Om International Yoga Health Society ed ho iniziato ad insegnare regolarmente in un quartiere del centro storico della città.
Nel marzo 2007 ho creato un mio centro di yoga ad Assi Ghat, l’area internazionale di Varanasi (dove trascorreva lunghi periodi lo scrittore italiano Tiziano Terzani), di fronte al Gange e poco distante dalla BHU.

Gli insegnamenti

In genere offro 90 minuti-2ore di lezione integrata di yoga.
Inizio con un’offerta a Shiva, cantando il Mahamritiunjay Mantra come pratica di bhakti-yoga (yoga della devozione).
Mi astengo dal farlo durante il mio periodo mestruale o quando gli studenti me ne fanno esplicita richiesta.
Dopo la pratica di bhakti-yoga inizio a guidare esercizi di riscaldamento, così da preparare il corpo alla pratica delle asana.
Inizio la mia lezione di asana con i saluti al sole (Surya Namaskar): una sequenza di 12 asana che risale al periodo vedico e viene considerato uno dei metodi più utili per avere una vita sana, attiva e vigorosa e per preparare l’espansione della consapevolezza.
Dopo aver fatto eseguire 7-8 volte il Surya Namaskar, guido alcune asana scegliendole tra 6 diverse tipologie.
Le sequenze che faccio eseguire variano da lezione a lezione, a seconda del livello di esperienza e della preparazione fisica degli studenti.
Dopo questa fase un po’ di tempo deve essere dedicato alla pratica del pranayama (un’insieme di pratiche che utilizzano il respiro per influenzare il flusso di energia vitale -prana- nei canali energetici -nadi- del corpo energetico -pranamaya kosha-), spesso ingiustamente ignorata; il respiro è il nostro principale processo vitale che influenza i processi di ciascuna cellula ed è intimamente legato al cuore ed all’attività del cervello.
La mia lezione standard -che include nella pratica del pranayama anche quella dei bandha e dei mudra- termina con una breve esperienza meditativa (lo stadio della meditazione, tuttavia, richiede lezioni finalizzate) e semplici asana di rilassamento.
Condizioni richieste per partecipare sono: uno stomaco vuoto, vestiti comodi ed un’attitudine seria.
Smriti

La Om International Yoga Health Society
La Om International Yoga Health Society, ONG ufficialmente approvata dal governo indiano, è stata fondata con lo scopo di promuovere la pratica dello yoga come supporto terapeutico e percorso spirituale.
Nel dettaglio gli scopi dell’organizzazione sono:

1)Promuovere la conoscenza dello yoga contribuendo allo sviluppo di una “salute sociale”;
2)aiutare le persone con disagi fisici e psicologici;
3)offrire corsi e trainings di varia durata (una settimana, un mese, tre mesi etc) ovunque ne venga fatta richiesta;
4)offrire lezioni gratuite di yoga e meditazione per pazienti affetti da H.I.V., cancro o tossicomani;
5)organizzare dimostrazioni di yoga, programmi di un’ora e stages nel centro della Society, in hotels di Varanasi e dovunque ne venga fatta richiesta;
6)contribuire ad iniziative ecologiche e culturali a Varanasi ed in India.

Contatti
Om International Yoga Health Society
Opp. Alok Nursing Home Assighat Road, upper the Preshak Book-shop B. 1/229-A, Assi, Varanasi 221005 (U.P.), India.
E Mail omyogasmriti@yahoo.co.in
Contatti telefonici +919336916081; +919794113505
Web Site www.omyogainternational.com

In alternativa può essere contattato il Progetto Viverealtrimenti (per tutti coloro che vivono in Italia) scrivendo a info@viverealtrimenti.com o a diana.passatutto@gmail.com.

In chiusura, come promesso, i mantra utilizzati da Smriti nelle sue classi di yoga o nel corso dei suoi workshop:


1. Om

2. Guru mantra :
Gurur Brahma gurur Vishnu gurur devo Maheswarah
Gurur sakshat parambrahmah tasmi sri gurave namah

3. Opening mantra :
Sarvamangal mangale shiva swart sadhike
Saranaye triambaki gauri
Narayani namastute

4. Mahaa Mrityunjaya :
Om Triambakam Yajamahey
Sungandhim Pushti Vardanam
Urvar Ukamiva Bandhanan
Mrityor Muksheeya Mamritat

5. Gayatri mantra (teja mantra) :
Om Bhur Bhuvah Swaha
Om Tat Savitur Varenyum
Bhargo Devasya Dhimahi
Dhiyo Yonaha Prachodayat

6. Truth mantra :
Asato Ma Sat Gamaya
Tamaso Ma Jyotir Gamaya
Mrityor Maamritam Gamaya

7. Maha shakti mantra :
Sristi istiti vinashanam shakti bhute sanatani
Guna shrae guna mahe narayani namastute namastute namastute

8. Protection mantra :
Jayanti mangala kali
Bhadra kali kapaleni
Durga chama shiva dhatri
Svaha svadha namastute

9. Bija mantra :
Muladhara chakra lam
Svadhisthana chakra vam
Manipura chakra ram
Anahata chakra yam
Vishuddhi chakra ham
Ajna chakra om

10. Yoga mantra :
Om yogam sharanam gatchami
Om yogam shivam sharanam gatchami
Om yogam shivam satyam sharanam gatchami
Om yogam shivam shakti satyam sharanam gatchami
Om yogam shivam dharmam shakti satyam sharanam gatchami

venerdì 10 settembre 2010

LUNA NUOVA -- mercoledì 8 settembre 2010 -- da Ajahn Munindo

Vivere altrimenti si scusa per il ritardo nel loadare questo post. Sono in "esilio nepalese" in attesa di un visto di tre anni per l'India. Che tutti i lettori incrocino le dita...

Chi spende tutta la sua energia
nel percorrere la Via
chi è puro e sollecito nell’impegno
raccolto e onesto nel comportamento
vede accrescere in sé l'esultanza.

Dhammapada strofa 24

Il sentiero del Buddha verso la contentezza passa dal lasciar andare.
Veniamo incoraggiati a considerare le cose con cura e con tutta la
nostra energia fino a penetrare nella loro vera natura; e cioè che
tutto è incerto, instabile, impermanente. Non lasciamo andare le cose
con un gesto di rifiuto o di voluta negazione. Lasciamo andare con la
comprensione che nasce dall’investigazione. Esiste anche un sentiero
ingannevole all’esultanza che nasce dall’attaccamento alle opinioni.
Aggrapparsi fermamente a idee e sensazioni di essere nel giusto può
procurare un forte senso di auto-importanza. C’è energia, entusiasmo,
convinzione. Ma seguire questo sentiero porta a divisione e
disarmonia. Quando il nostro sforzo è in accordo con la realtà
percepiamo un’interiore contentezza e irraggiamo benessere.

Con Metta

Bhikkhu Munindo

(Ringraziamenti a Chandra per la traduzione)

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Santacittarama
Monastero Buddhista
02030 Frasso Sabino (RI) Italy

Tel: (+39) 0765 872 186 (7:30-10:30, 7:30-8:30 durante il ritiro)
Fax: (+39) 06 233 238 629

sangha@santacittarama.org
(alternativa): santa_news@libero.it


www.santacittarama.org
www.forestsangha.org (portal to wider community of monasteries)
www.fsnewsletter.org (newsletter in English)
www.dhammatalks.org.uk (audio files)

lunedì 6 settembre 2010

Sette serpenti Sulle tracce di un culto ignorato.

Di seguito una mia “antica” sintesi universitaria su un buon libro di antropologia: Sette serpenti, sulle tracce di un culto ignorato (Manifestolibri, Roma, 1994) dell’antropologa Maria Silvia Codecasa, amica del compianto Angelo Quattrocchi, editore della Malatempora con cui ho pubblicato i miei primi tre libri.
Mi scuso per lo stile forse un po’ “acerbo’ della sintesi che credo mantenga comunque un buon livello di interesse.

Premessa

«Il serpente è un pittogramma, è la bandiera dell’unico grande impero pacifico della storia, che si estendeva su tutto il pianeta coltivabile, ma che era composto di stati minuscoli, con un’economia di sussistenza, come oggi a Samoa. I progressi dell’agricoltura erano assicurati dalla conoscenza di un ritmo terrestre rispecchiato dalle vicende del cielo. Non erano capaci di calcoli complessi, ma sapevano contare fino a sette, e notarono il gruppo delle Pleiadi. Il contadino aveva la luna e aveva le Pleiadi: non gli servivano i pianeti e la settimana. Il sette era sacro perché era il numero del loro calendario celeste, e quando una delle sette stelle divenne meno visibile, i contadini inventarono bellissime favole per spiegare il nuovo pittogramma: per esempio quella delle sette ninfe con ali di cigno, che scendono a nuotare sotto il chiaro di luna, una delle quali viene trattenuta da un uomo che se ne innamora. Altre volte, una delle sette è solo in ritardo, forse perché zoppica, essendo stata morsa da un serpente.»

Ho prescelto questo “frammento” per iniziare la presentazione del libro di Maria Silvia Codecasa perché ritengo rappresenti una sintesi abbastanza illuminante, seppur inevitabilmente parziale, di quanto vi si trova scritto.
Il testo Sette serpenti racconta di un viaggio ― sulle tracce di un culto ignorato — di moltissimi chilometri, dall’isola di Ceylon, risalendo lentamente attraverso l’India, toccandone in più punti sia il versante orientale che quello occidentale, raggiungendo poi il Nepal e, di lì, virando a sud-est, includendo diverse tappe in Birmania, Thailandia, Indonesia, Polinesia, Melanesia, arcipelago delle Nuove Ebridi, Isole Figi e arcipelago di Samoa.
Obiettivo di questo ambizioso percorso: una ricerca, in un ambito, come abbiamo visto, piuttosto ampio, sul “culto dei serpenti”.
In precedenza, l’autrice ― antropologa — aveva anche soggiornato diverso tempo nell’isola coreana di Cheju, sulle tracce del medesimo culto e non sono rari, nel testo, i rimandi ai dati raccolti in quella precedente fase della ricerca considerata. Non mancano, del resto, riferimenti a fenomeni similari in contesti molto diversi da quelli studiati dall’autrice a migliaia di chilometri da casa; diverse volte, difatti, viene citato il paese di Cocullo, in Abruzzo, di cui si parlerà successivamente.
Dalla ricerca della Codecasa emerge un “filo rosso” che lega luoghi tanto distanti tra loro, accomunati da favole e leggende molto simili e dalla venerazione nella stessa creatura: il serpente, per l’appunto, legato generalmente ad un numero preciso: il sette e ad altrettante figure femminili; sette sorelle. L’elemento femminile è, a questo proposito, molto importante. Il culto dei serpenti e delle sette sorelle (la rappresentazione mitologica della costellazione delle pleiadi), è difatti riconducibile al culto della dea madre, particolarmente fiorente in epoca neolitica quando, presso molte popolazioni (secondo il punto di vista di taluni studiosi, quelle stanziate nella fascia indoeuropea, comprendente l’Europa centro-meridionale, il medio oriente , il subcontinente indiano ed il sud-est asiatico) si instaurò stabilmente la forma di vita sedentaria legata alla coltivazione dei campi e all’allevamento di animali domestici; in una parola quando si consolidò il fenomeno dell’agricoltura.
A questo proposito ho pensato di citare la “mia” scheda critica del testo Tantra di André Van Lysebeth, nel quale vengono illustrati due tipi di società diverse presenti sul nostro pianeta 8500 anni or sono, epoca in cui, al crepuscolo del mesolitico, iniziò a svilupparsi l’agricoltura: a) le civiltà neolitiche sedentarie, dedite all’agricoltura e all’allevamento di maiali, pecore, capre, volatili e b) i pastori nomadi delle steppe eurasiatiche.
Van Lysebeth ritiene che a ciascuna di queste due civiltà ― differenti per struttura sociale, alimentazione, fruizione del territorio, concezione del sacro ecc… — corrispondesse un’area geografica specifica, nettamente differenziata dall’altra:

«Le civiltà neolitiche erano presenti nei territori in cui attualmente troviamo: Spagna, Francia, Belgio, Inghilterra e Irlanda, Danimarca, per quanto riguarda quello che l’autore indica come il “settore ovest”. Nel “settore est”, invece, ritroviamo altre popolazioni classificate nella medesima tipologia di “società neolitiche”, stanziate nei territori di tutto il Mediterraneo, in quelli dell’attuale Svizzera, Germania del Sud e dell’Ovest, Romania, nelle grandi pianure fertili dell’Est europeo, in Medio Oriente, fino all’India del Sud. L’insieme di queste civiltà neolitiche sono identificabili, a parere di Van Lysebeth, con i veri indoeuropei».

Parlando della loro struttura sociale insiste sul fatto che fosse egualitaria, matrilineare e con la donna ad un livello sociale elevato (dato che la “tribù prolifera grazie alla sua fecondità ed all’agricoltura che essa ha inventato).
Queste popolazioni, inoltre, erano dedite al culto della Dea-madre e “dei valori femminili: pace, natura, amore, arte, protezione della natura”.
Il ruolo della donna nel culto, difatti, è preminente. Essa è “sacerdotessa”. La sessualità è vissuta liberamente dato che “non esiste antinomia tra spiritualità e sessualità”.
Per quel che concerne l’espansione sul territorio, infine, “si effettua lentamente, per migrazione ed occupazione di nuovi territori resi coltivabili”.
A proposito dei pastori nomadi, tra i quali annovera — dedicando loro una particolare attenzione ― anche gli ariani, Van Lysebeth scrive che erano popolazioni del nord, in particolare autoctoni delle steppe dell’Eurasia, “dedite alla pastorizia, alla continua ricerca di nuovi territori e nuovi pascoli.” Le presenta inoltre come avvezze all’uso delle armi e organizzate “secondo gli schemi tipici del patriarcato”, con al vertice della “piramide” il capo del clan, poi i suoi guerrieri e con la donna sottoposta all’uomo, in una condizione liminale con quella di schiava.
Di “civiltà neolitiche”, con particolare riguardo alla loro struttura sociale pacifica ed egualitaria, parla anche il teorico libertario dell’ecologia sociale Murray Bookchin sul suo testo “L’ecologia della libertà”.
Scrive Bookchin:

«(…) la presenza tra le vestigia di un campo di caccia preistorico o di un villaggio orticolo del Neolitico di statuette femminili palesemente cariche di significati magici o religiosi, suggerisce la ragionevole probabilità che la comunità accordasse alle donne un prestigio sociale difficilmente riscontrabile nelle società patriarcali dei pastori nomadi. Ed è verosimile che una comunità di questo tipo delineasse il proprio sistema di lignaggio attraverso il nome della madre (discendenza matrilineare).
(…)
Se le dimensioni che hanno le fondamenta delle case preistoriche mettono in rilievo l’assenza di grandi abitazioni individuali e se gli ornamenti che si trovano nelle tombe non mostrano vistose ricchezze, possiamo allora ritenere che nella comunità ci fosse l’uguaglianza sociale».

A proposito della struttura sociale delle civiltà neolitiche e dei modelli culturali in esse presenti, è cruciale a parere di Bookchin il fatto che la principale fonte di approvvigionamento alimentare in dette società fosse l’agricoltura, in particolare l’orticultura, attività cui si dedicava principalmente la donna. Questo, secondo il punto di vista dell’autore americano, determinò che le comunità, non dipendendo particolarmente dalla caccia e dagli animali migratori, cominciarono a spostare il loro accento culturale “dal maschio cacciatore alla femmina raccoglitrice, dal predatore al procreatore, dai fuochi dei bivacchi al focolare domestico, dai tratti culturali associati al padre a quelli associati alla madre”.
Ed è partendo da questi presupposti che Bookchin, dopo poche righe, inferisce che «tra le rovine dei primi villaggi neolitici, riusciamo spesso a percepire l’esistenza di quella che fu una società chiaramente pacifica, disseminata di simboli che rappresentano la fecondità della vita e la generosità della natura. Quantunque vi siano tracce di armi, di palizzate e di fossati difensivi, gli orticultori primitivi sembrano avere esaltato le arti pacifiche e le occupazioni sedentarie».
Tornando ora al testo della Codecasa penso che uno degli elementi più interessanti che ne emerge sia il collegamento dei culti della Dea-madre e dei serpenti alla concezione della malattia e della morte. La madre, nel suo aspetto più terribile, diffonde la malattia (stessa cosa la causa l’uccisione del serpente). La Dea madre ed il serpente che la simboleggia detengono il segreto potere di morte e di vita: chi decide di uccidere, può decidere di salvare. Difatti…

«Nella logica primitiva è perfettamente normale che i morsi di serpente siano guariti da un serpente. Da noi il rettile ha la fama di guaritore dai tempi di Esculapio. Evidentemente ciò che colpisce l’immaginazione di chi vive in fraternità con gli animali non è “l’innata malvagità” del serpente, ma il suo segreto potere di morte. Chi decide di uccidere può decidere di salvare. Il cosiddetto primitivo non pensa affatto che tutto ciò che può far male all’uomo dovrebbe essere spazzato via dalla faccia della terra, correggendo la goffa opera di Dio. I serpenti fan parte della danza di molecole della nostra danzante galassia, e ricordo un bel canto africano che ben rappresenta la condizione dell’uomo in grembo alla natura:

Quando la notte il piede batte
Sull’ostacolo che si rizza e morde,
o padre nostro, serpente, padre della tribù,
fa che sia un ramo che si rizza e batte,
non uno dei tuoi figli dal dente aguzzo;
fa questo, padre,
o padre della tribù! Per noi, figli tuoi»

Tappa a Ceylon

Come è stato già accennato, il viaggio di Maria Silvia Codecasa inizia a Ceylon. A proposito dei cingalesi dice che “si vantano di discendere da un pugno di ariani calati dall’India settentrionale 2500 anni fa” ovvero alle stesse tribu’ di pastori nomadi che dall’Asia centrale sciamarono in Europa, Iran ed India del nord.
Oggigiorno, dunque, a Ceylon, troviamo i discendenti dei conquistatori ariani, di pelle chiara, gli “Yakka”, i discendenti degli indigeni locali, di pelle più scura ed anche una forte percentuale di Tamil, anch’essi di pelle scura, immigrati dall’India meridionale, alcuni dei quali discendono da una generazione di conquistatori precedente a quella ariana.
La Codecasa scrive che alcuni studiosi identificarono i Tamil di Ceylon con i Naga , i leggendari uomini-serpente, capaci, cioe’, di trasformarsi in serpenti o dotati di un corpo per metà anguiforme.
Al tempo della permanenza a Ceylon di Maria Silvia Codecasa (fine anni ’70, probabilmente) nell’isola si trovano ancora molti adoratori di serpenti.
Da Sri Lanka la ricercatrice raggiunge «un arcipelago di isolette piatte, un reame ancora indipendente di aironi e anitre selvatiche: questa è Nagadvipa, da Nagina-dvipa, che letteralmente significa “L’isola della dea serpente”».
Cito:

«Il tempio della dea domina l’isola, imponente, dal centro di un immenso cortile, ombreggiati da alberi maestosi, detti marnosa, o nim, e scientificamente noti col nome di Azidirachta indica.
Questi alberi sono costantemente presenti in India, là dove i serpenti sono oggetto di culto, e le foglie vengono usate come antidoto ai morsi dei serpenti .
(…)
Il tempio è spazioso, pulito e ben ventilato, di una semplicità direi francescana. Nel sancta sanctorum l’immagine di Nostra Madre dei Cobra è scolpita su un macigno che affiora da sottoterra; se ne vede solo il cappuccio e parte del tronco.
(…)
Assistiamo ad una cerimonia propiziatoria per la salute di un bambino. Sacerdote e fedeli stanno seduti per terra, accanto a ciotole con fiori e acqua pura e curcuma: si brucia incenso e si versa acqua benedetta. Il rito può sembrare esoterico, ma la cantilena del prete è assolutamente familiare, come i volti dei fedeli, che manifestano qualche apprensione all’inizio ma poi si rilassano, sicché quando l’arciprete mi dice: forse tu hai delle preoccupazioni, ma adesso sei venuta a casa, sei nella casa della Grande Madre, io chino la testa e accetto la benedizione, anche se mi è stato insegnato che il Serpente è il Nemico».

In questo stesso tempio è presente un serpente vivo, che qualche volta si lascia persino vedere. A Nainativu, in molte case, si allevano serpenti e la stessa cosa accadeva a Cheju , l’isola coreana ove la Codecasa ha condotto la prima parte della sua ricerca. A Nainativu nessuno uccide i serpenti perché questi, generalmente, non attaccano l’uomo e nel caso si dovesse verificare un’aggressione, “basterebbe recarsi al tempio per essere immediatamente guariti”.
Un medico locale, in un colloquio con l’antropologa, sostiene che “i morsi di serpente non sono pericolosi per chi ha fede” e che lui stesso, qualche giorno prima, aveva salvato un bambino morso da un cobra “semplicemente pregando Shiva”.
Di ritorno a Ceylon, avventurandosi sulla costa di nord-est, Maria Silvia Codecasa si ritrova nei pressi di un villaggio di pescatori, Vallipuram. Lì visita un tempio di Vishnu, ubicato un po’ discosto dal centro abitato, appartato “tra pochi, grandi alberi”.

«Come conchiglie vuote lasciate indietro da antiche maree, reliquie di riti dimenticati sono sparse attorno al santuario principale. Sono pietre scolpite, appoggiate al muro, con le immagini di un cobra col cappuccio spiegato, o di due serpi avvinghiate l’una all’altra […]. Sono le offerte delle donne senza prole, la cui sterilità viene generalmente ascritta, in India come in Corea, a un’offesa fatta ai serpenti in questa vita o in una precedente, e si chiamano infatti “stele espiatorie”.
C’è anche una capanna sacra alle sette Kannimal. Il tetto è di foglie di palma, il pavimento è la sabbia. All’interno si intravedono un tridente di ferro e un candelabro a sette braccia, annerito dal fumo dell’incenso. Per terra un’offerta di fiori gialli. Sul fondo un telone dipinto con le immagini sbiadite di sette figure femminili».

Le sette figure femminili cui si è ora accennato sono lì conosciute come “Sapta Matrikas” e sono considerate come “sette vergini”. Il sacerdote di Vishnu, officiante nel tempio rispettivo dà alla Codecasa una lista completa degli autentici nomi sancriti delle “Sapta Matrikas”: Bramani, Mahesvari, Kaumari, Vaishnavi, Varahi, Indiani, Chamundi e trattasi di “vergini mogli degli dei” (Brama, Vishnu, Indra, Kumara, che poi sarebbe Skanda, figlio di Shiva). Varahi, poi, è la moglie di Vishnu incarnato sotto forma di cinghiale, e Chamundi è Kali.
Riemerge la questione della sostanziale “innocuità” dei morsi di serpenti in un contesto dove questi vengono fatti oggetto di culto. Affiorano parallelismi con Cheju e con Cocullo:

«A Cheju nemmeno i bambini han paura di essere morsi, sebbene ci siano serpenti dappertutto. Ma non mordono!…E in Italia, c’è una vallata, a 70 chilometri da Roma dove “nessuno può morire” di morsi di serpenti o cani rabbiosi. (Nel villaggio di Cocullo che domina la valle, la chiesa è dedicata a S. Domenico, -che esercita la stessa funzione di Vishnu qui- e in chiesa, nel giorno del santo, la gente va a prendersi secchiate di un terriccio speciale, detto “terra di S. Domenico”, che guarisce da qualsiasi morso e accresce la produttività dei campi».

Andando avanti nella narrazione, la Codecasa dirà poi che S. Domenico, a Cocullo, “ha ricoperto quel che era rimasto del culto della dea serpente Angizia.”
Tornando ora alle “Sapta Matrikas”, sembra proprio che a Ceylon non esistano solo loro nelle vesti di sette divinità femminili; c’è anche

«Una dea Sette-Pattini, che è rinata sette volte, e le Sette Fanciulle, e finalmente ci sono sette famose sorelle che si misero a capo dei guerriglieri che tentavano di scacciare gli olandesi, furono sconfitte, e si avvelenarono per non cadere nelle mani dei nemici. Sono diventate eroine nazionali, con un culto in loro onore. E alla fine è davvero difficile dire se un santuario è dedicato alle mogli dei sette maggiori dei indù, a una dea della fertilità che si è incarnata sette volte, a sette divinità delle sorgenti che spesso sono rappresentate con code di serpente e chiamate Nagakanni, oppure alle sette principesse che combatterono gli olandesi».

Tappe in India

Affrontando il discorso in linea più generale l’autrice del testo qui considerato parla di un grande festival dei serpenti, il Nagapanchami, che ha luogo a fine Luglio, cui prende parte circa la metà della popolazione indiana.

«Già molte settimane prima del Nagapanchami, al mercato di Bombay, a Shukla-ji Street, si cominciano a vendere migliaia di serpenti vivi, che i devoti metteranno in libertà nel giorno santo. Quel giorno ci si astiene da qualsiasi cibo che non sia bollito. Alla mattina, si disegna un complicato intreccio di sette o nove serpenti davanti alla soglia, a cui si offrono fiori. Al pomeriggio, molti vanno in pellegrinaggio ai termitai, dimora tradizionale dei cobra. Alla sera, la famiglia osserva una specie di veglia attorno a una lampada, “per tenere svegli i serpenti”, si dice. E il bambino più grande recita una storia di serpenti».

Una ipotesi interessante che emerge riguarda la festività del 15 Agosto (Assunzione della vergine Maria), “colei che calpestò finalmente la testa del serpente che aveva corrotto Eva”. La Codecasa azzarda che la data “può essere stata scelta per ricoprire una più antica festività dei serpenti”, un culto probabilmente partito dai coltivatori di cereali per cui poteva esser stato del tutto naturale “connettere un rettile che vive in cunicoli sotterranei, con i granelli che l’uomo aveva seminato in buche scavate con un bastone nella terra. E il serpente non mangia i granelli, ma si nutre dei topi che li mangiano, e quindi protegge il grano ed è un amico.”
Giunta nei pressi di Madras, sulla costa sud-orientale del sub-continente, l’antropologa si dirige verso Tiruverkkadu, dove si trova un tempio famoso di Kali o, per usare l’espressione locale, a Karu Mari (ma sempre di Kali, in sostanza, si tratta)

«Al centro di un cortile recintato da un alto muro i devoti si purificano lavandosi a una fontanella prima di entrare nel tempio, ombreggiato da un maestoso albero Pipal. (…) E’ l’albero (detto bodhi a Ceylon) sotto cui Buddha raggiunse l’illuminazione[…] e sotto l’albero conto sette pietre in fila con serpenti scolpiti sopra. Saranno, o no, le sette Kannimal?
Surya [la sua guida del momento] annuisce, raggiante: per lui esse rappresentano la divinità suprema e intende completare il pellegrinaggio settimanale con una visita al tempio di Mangadu, dedicato escluivamente alle sette Kannimal.
(…)
Ma ecco a destra un’altra porta, aperta su uno stanzone col soffitto bucato, per poter lasciar crescere l’albero sacro. L’albero è morto; ne è rimasto il troncone in mezzo a un mucchio di terra, tra quattro pietre con i soliti serpenti scolpiti. Questo piccolo santuario non è abbandonato: in un angolo del mucchio si vede un buco, e attorno i resti recenti di uova rotte.
“Qui vive un serpente”, dice Surya, “il latte e le uova sono le offerte alla dea che si chiama Naga Thanmal Ambal, cioè la onorevole madre”».

Sarebbe lungo, a questo punto, approfondire i legami tra Kali e la onorevole madre, dato che intento di questa scheda è fornire una panoramica generale del culto considerato. Ritengo invece importante soffermarmi un momento sulla ricorrenza del numero sette (sette Kannimal, Sapta Matrikas, sette fanciulle…) ed il concetto singolare di dea (nelle forme de “la onorevole madre”, “Nostra Madre dei Cobra” ed altre denominazioni che via via si riscontrano sul testo in esame). È importante comprendere subito, infatti, che il culto dei serpenti, legato a quello della dea madre nella sua pluralità di espressioni, presenta spessissimo questa corrispondenza: una dea in sette persone. Penso che per comprenderlo meglio sia bene considerarlo alla luce di quanto ci hanno insegnato in merito al concetto di Trinità cristiana, dove Dio è parallelamente uno e trino, uno in tre persone: Padre, Figlio, Spirito Santo.

«Mangadu è un santuario importante (…) Surya spiega che il tempio è dedicato a Kammakschi-mal, la dea dagli-occhi-pieni-di-amore.
(…)
La cupola è ornata da tre fregi in altorilievo. Al livello inferiore noto sette statue femminili, le quali sono tutte Kamakshi, spiega Surya».

Tappa successiva: Bangalore, collocata quasi esattamente nel centro della sezione meridionale del sub-continente. Lì…

«Sopravvive il culto delle sette sorelle, nel loro aspetto di distributrici di malattie, con una Maramma che presiede al colera, Kokkalamma per la tosse, Udalamma per il collo gonfio, e Sukhajamma per morbillo e vaiolo. E in onore delle sette deee si usava camminare sulle bragi».

La visita a Bangalore, sulle tracce del culto dei serpenti, viene così raccontata:

«Alla fermata dell’autobus, all’ombra di un sacro albero di pipal, sul marciapiede, mi vedo davanti le tre pietre scolpite di cui avevo letto la descrizione in una vecchia rivista […]
(…)
La pietra a sinistra, con la figura di un cobra a sette teste, rappresenta Subramania. Sulla pietra centrale la donna che al posto delle gambe ha una coda di serpente, si chiama Mudamma. Sulla terza pietra, due serpenti stanno attorcigliati attorno a un linga. A questa divinità viene reso omaggio soprattutto durante la festa della dea Gauri, soprattutto da parte delle donne.
(…)
Ma Gauri (che in sancrito vuol dire forse “la dorata”, e forse “la vacca”) è solo un altro aspetto di Kali l’oscura, ovvero Minakshi o Kamakshi o Pattini: la Grande Madre»
Dopo Bangalore La Codecasa decide di non trascurare il Kerala e fa sosta a Mannarsala, dove, all’interno di un tempio, compare una figura cruciale; la sacerdotessa, a chiudere completamente il cerchio di un culto legato alla dea-madre nelle sue molteplici espressioni, officiato da donne.

«Arriviamo a un cancello, al centro di un muro di mattoni, decorato con immagini di serpenti: al centro del cortile vastissimo, c’è una casetta bassa, rettangolare, dove alloggia la sacerdotessa e lì presso un giovanotto canta accompagnandosi sul violino.
(…)
Il luogo di culto originale, però, era il boschetto sacro o kavuu, che oggi si trova fuori del cancello. Si distinguono due pietre ritte, per il re dei serpenti e per sua moglia (Nagaraja e Nagayekshi): ma nel secolo scorso c’erano centinaia di pietre e centinaia di serpenti vivi, i servi del re dei serpenti.
[La sacerdotessa] ha 85 anni, e la sua santità è tale che nessuno può toccarla. Si era regolarmente sposata all’età di 12 anni, ma quando la sacerdotessa precedente, sul letto di morte, l’ha designata a succederle, ha lasciato la famiglia. È sempre stato così: la donna prescelta deve servire il tempio. Si sa già che alla morte di questa, la sua sorella più giovane, che oggi ha 55 anni, a sua volta lascerà marito e figli per essere sacerdotessa. C’è un tempo per essere madre e un tempo per servire Iddio».

Stando a quanto riferito dai locali, la sacerdotessa ha poteri di guaritrice, in particolare può guarire quei mali che costituiscono, tradizionalmente una punizione per chi ha violato la sacralità dei rettili oggetto di culto.

«La lebbra, assieme alla cecità e alla sterilità, è una delle punizioni usuali inflitte a coloro che hanno offeso i serpenti, in India come in Corea».

Giunta nei pressi di Mangalore,sulla costa sud-occidentale, la Codecasa visita un altro tempio dedicato al culto dei serpenti, addirittura meta di pellegrinaggi, il quale, tuttavia “sta per subire una ricostruzione che lo renderà più simile ai templi indù ortodossi” e che oggi, probabilmente, sarà già induizzato (dato che non dobbiamo dimenticare che questo viaggio antropologico risale alla fine degli anni ’70).
Al momento della visita dell’antropologa, però, l’antica struttura è ancora ben visibile:

«due cortili concentrici, con un lato aperto sul fiume. Là i pellegrini si purificano e poi si riposano sotto i portici, dove viene servito un pranzo abbondante su foglie di palma, gratuito. Come a Mannarsala, in mezzo al cortile c’è solo un’insignificante casetta rettangolare. Il culto infatti si svolge all’aperto, e nel muro del porticato si aprono le tane dei serpenti vivi, ospiti del tempio».

Procedendo nella ricerca, accanto alla dea in sette persone, emerge un altro personaggio; il fratello zoppo delle sette sorelle, di nome Beru o Ketlo. Ad esempio, in Rajasthan, la Codecasa si imbatte in un membro della tribù sacra dei Charan, i quali, a detta dell’informatore del momento della nostra antropologa…

«Sono bardi regali, e genealogisti di professione, o astrologi. Facilmente, sia gli uomini che le donne vengono posseduti dalla divinità, che in essi si incarna.
(…)
Le divinità dei Charan sono Mata-ji, ossia la Madre, e le Sette Sorelle, le Bayan-sa. Bayan significa fanciulle, e –sa è un suffisso di rispetto ma hanno molti altri nomi naturalmente.
[Il fratello] negli amuleti è raffigurato alla loro destra».

Anche in Rajasthan le officianti del culto sono donne, dette bhopi (incarnata). Molte storie riguardano Beru e non posso permettermi di dilungarmi troppo su questa figura. L’unica cosa che ritengo essenziale dire a proposito del “fratello zoppo” riguarda il fatto che, in molti casi, questi è identificato con una stella della costellazione delle Pleiadi che, 2000 anni prima di Cristo circa, è divenuta quasi invisibile, stimolando il sorgere di innumerevoli leggende ascrivibili ad una sorta di mitologia trasversale, presente tanto in Mesopotamia quanto in Egitto, nel bacino del Mediterraneo, In India e via di questo passo.

Tappe in Nepal

«A Kathmandu […] c’è sempre una bambina chiamata kumari, “la vergine”, in cui la dea si incarna finché alla piccola non spunta il secondo dente della dentizione adulta: ripetendo, non il dolore ma l’innocenza. La kumari è alloggiata in un palazzo insolitamente ben tenuto, con porte e finestre scolpite, nel centro della città, a pochi metri dalla piramide a gradini dove i figli dell’occidente siedono in vari stadi di sonnolenza. La porta del palazzo è sempre aperta, benché la kumari sia la sacra protettrice del Nepal: ogni anno in una cerimonia pubblica, la kumari conferma la legittimità di un re, ponendo un pezzo di curcuma sulla sua fronte. Chiunque può entrare nel cortile, e con poche rupie si può indurre un bambino cencioso a far affacciare alla finestra la kumari.
Sembra una bambinetta come le altre. Io guardo in su, lei guarda in giù. Occhini grandi nel viso pallido, perché vive sempre confinata nelle stanze al piano superiore. E subito sparisce.
Quando spunta il secondo dente, i sacerdoti vanno nella campagna a cercare un’altra kumari. La dea si incarna sempre in una bambinetta della stessa bassissima casta».
Sembra che in Nepal i luoghi di culto più famosi siano dedicati alla madre. Nelle Terai, poi, le terre basse del Nepal, “le sette sorelle vengono adorate il settimo giorno del festival di dieci giorni e nove notti dedicato a Durga. Il settimo giorno del festival di Durga, dunque, vengono adorate le sette stelle: le Pleiadi.”

Una fiaba birmana

«C’erano una volta sette fate, che usavano bagnarsi in un laghetto in mezzo ai boschi. Un principe le vide, e si innamorò di una di loro. esse avevano lasciato i loro indumenti e le ali sulla riva, prima di immergersi, e il principe si impadronì del corredo della sorella più giovane, e attese. Quando le fanciulle furono stanche di nuotare, volarono via, ma la sorella più giovane restò sulla riva, battendo i denti e in lacrime. Allora il principe uscì dai cespugli e le diede le vesti, ma non le ali, perché voleva sposarla. La fanciulla accettò il suo amore, ma il padre del principe non amava la nuora, e non appena il principe si allontanò dalla capitale per battersi in guerra, progettò di assassinarla, però la suocera ne ebbe pena, le restituì le ali e la fanciulla rivolò in cielo. Il principe ritornò e si mise in cerca della moglie. Un monaco gli insegnò a superare gli ostacoli che avrebbe incontrato: due montagne che ondeggiavano l’una contro l’altra, una barriera di fuoco che si spengeva solo per dieci minuti al giorno, e un’orda di giganti. E finalmente i due innamorati furono di nuovo riuniti».

«Questa stessa storia a Ceylon aveva Sita come protagonista. È possibile che la familiare favola della Nereide che sposa un mortale sia un mito deteriorato, e precisamente un mito che cerca di spiegare, in modo originale e poetico, la riduzione delle Pleiadi da sette a sei. E al posto del fratello zoppo, avremmo uno sposo innamorato. Antichissimo, certamente è il motivo dell’indumento magico: senza di esso la fanciulla del cielo perde il suo potere soprannaturale, e diventa una mortale qualsiasi. E le Nereidi, lo dice l’etimologia [Néo in greco e in latino vuol dire “filare”] erano esperte tessitrici, e quindi erano maghe, dato che agli uomini del nelotico, i primi indumenti tessuti apparivano un’opera di stregoneria».

E quest’ultimo punto trovo che sia particolarmente interessante perché costituisce un altro tassello nell’illustrazione delle “società neolitiche” ove la donna, ben diversamente che nel posteriore patriarcato,avevano un ruolo sociale paritario con quello del maschio e, non solo, venivano fatte oggetto di profonda reverenza dato l’alone magico di cui erano rivestiti sia il parto, che l’orticoltura, che, come abbiamo appena visto, al tessitura.
Procedendo ulteriormente nella ricerca, sembra che il nucleo della favola delle sette fanciulle dal cielo, presente, come abbiamo visto sino ad ora anche in Birmania e a Ceylon, sia stato elaborato in Malesia, “nella giungla umida dell’interno”, ove le protagoniste assumerebbero l’aspetto “più realistico che altrove, di uccelli acquatici.”
Una storia ugualmente simile alla “fiaba birmana” la troviamo anche a Bali. Tuttavia, come la Codecasa stessa scrive, “Man in mano che mi allontanavo dall’India, il legame tra le sette sorelle e la grande madre si faceva più vago” ed il lettore non trova più, nel corso della narrazione, accenni ad altri templi. Ora ci si sta muovendo semplicemente sul terreno delle credenze.
Interessante, comunque, l’identificazione delle sette ninfe di Bali con il basilico, l’erba dei re. Scrive la Codecasa:

«[A Bali] le sette fanciulle prese nel loro insieme sono una pianta: il che è nelle migliori tradizioni delle Dee Madri».

Serpenti nel Pacifico

«Si narra a Samoa che Sina, una fanciulla di Toga, trovò un’anguilla piccolissima, e la allevò in una scodella, finché questa non crebbe abbastanza da poter vivere in una polla. A Sina piaceva bagnarsi nella polla e giocare con l’anguilla, finché questa non la punse con la coda. Sina ebbe paura e fuggì a Samoa, ma l’anguilla la seguì. I familiari di Sina decisero di uccidere l’anguilla, e questa comprese che la sua ultima ora era venuta e chiese a Sina di tagliarle la testa e di seppellirla. E dalla testa dell’anguilla nacque la prima palma da cocco».

Nell’arcipelago delle Fiji, malgrado l’estesissima cristianizzazione, sopravvive ancora il culto dei serpenti. In particolare in una località, Kandavu:

«A Kandavu, ancora nel 1944, come si legge in un articolo del reverendo Tippet, la teologia del serpente primitivo si manifestava in un rito, abituale in caso di guerre ed epidemie, officiato da sacerdoti che appartenevano ad una casta elevata, come quella dei capi-tribù. Scopo del rito era di accrescere il potere spirituale dei capi.
La cerimonia si svolgeva in un tempio all’aperto, un’area circolare cintata da muri di pietra. L’officiante era assistito da tre uomini vestiti solo di foglie di palma. Egli cantava una formula magica, di pochi suoni elementari, che veniva completata dai tre assistenti: il serpente ospite del tempio riconosceva le vibrazioni, che precedevano l’offerta giornaliera del cibo, usciva dal nido e andava ad avvolgersi attorno al braccio destro del sacerdote. Anche il gesto successivo doveva essergli familiare: il sacerdote baciava il serpente. Ma era un bacio di Giuda. Infatti, dopo il bacio, il sacerdote mordeva il serpente dietro la testa, a fondo, fino ad ucciderlo. Un modo diverso di uccidere il “santuario del dio” sarebbe stato blasfemo. Bisogna apprezzare lo storico punto di vista di questi “primitivi”: un sacrificio richiede l’assenza di intermediari e la piena consapevolezza, da parte del sacrificatore, di quello che è un assassinio. Il sangue della vittima deve sporcare la bocca e le mani del prete, deve incrostarvisi sopra: infatti solo più tardi all’officiante era concesso di lavarsi.
Seguiva la comunione. Il serpente sacrificato veniva portato alla casa del capo che aveva richiesto la benedizione del dio, e fatto bollire in una pentola, alla presenza dei capi e del sacerdote. Quindi tutto il contenuto della pentola doveva venir consumato (brodo, pelle, squame, e ossa incluse) per evitare profanazioni.
(…)
C’è […] da domandarsi se il rito non sia uno stravolgimento della comunione cristiana, anziché una sopravvivenza di un costume neolitico»

Per finire:

«C’è un leggendario enorme serpente, che vive sotto la terra e sotto il mare del golfo di Papua. Con la scoperta del petrolio il mito è stato aggiornato, e si dice che, se il serpente venisse ucciso, il petrolio scorrerebbe a fiumi.
Dunque anche in Nuova Guinea, come in Europa e in India, i serpenti sono i custodi dei tesori della terra, che si tratti di rubini o di petrolio. La favola esprime la saggezza antica in un codice comprensibile: chi profana il suolo (sottraendo beni comuni a tutti gli abitanti del pianeta), disturba i mostri, e questo è un messaggio troppo importante per essere formulato in un gergo esoterico».

Emerge a questo punto abbastanza chiaramente la corrispondenza del mito del serpente con quello archetipico del drago (da cui forse il primo deriva), anch’esso, difatti, come del resto anche Tolkien ci ricorda, “in una fase successiva, già in qualche modo di contaminazione e di decadenza diventerà il custode di un particolare tesoro”.

sabato 4 settembre 2010

L'intuizione della Spiritualità Laica: “L'universo é spontaneamente autocreato...”

Ho il piacere di ospitare, di seguito, alcune riflessioni dell'amico Paolo D'Arpini, figura storica del Circolo Vegetariano di Calcata (VT) e della stessa esperienza calcatese, di cui ho parlato nei miei libri e che potete trovare presentata nella sezione rispettiva del sito di viverealtrimenti.
Paolo:


Proprio in corrispondenza della prossima visita del papa cattolico Ratzinger in Inghilterra, entro la prima metà di settembre di quest'anno, viene presentato al pubblico il nuovo libro del fisico britannico Stephen William Hawking, definito “il genio del presente millennio”.
Le conclusioni a cui giunge il fisico quantistico vanno nella direzione di una sostanziale negazione del creazionismo.
“In seguito al Big Bang ed alla forza di gravità ed alla natura intrinseca delle particelle quantiche la materia universale che noi conosciamo si é autogenerata... dal vuoto, senza alcun bisogno di intervento divino”. Come dire che Dio non esiste e che la materia e la vita sono la risultanza di un processo naturale. Queste ipotesi del Tutto che genera il Tutto seguono la teoria di Albert Einstein della
relatività dello Spazio – Tempo, che funge anch'essa da sostegno all'anti-creazionismo.
Le tesi del ricercatore britannico sono molto affini all'intuizione della “spiritualità laica o atea” ampiamente espresse dal sottoscritto in diverse occasioni. Quindi la corroborazione scientifica, fornita da Hawking, sulla non esistenza di un Creatore (come solitamente viene inteso Dio) mi trova perfettamente in sintonia.
La verità é che la negazione della creazione, in quanto opera di un Dio personale, é ben più antica delle “scoperte scientifiche” del fisico inglese o delle “intuizioni spirituali laiche”. Addirittura essa risale a migliaia di anni prima della nostra era. Il concetto era già presente nella filosofia “Non-duale” dell'India e nel Taoismo Cinese, ed ebbe una sponda anche nella teoria buddista del “Vuoto” (o
Sunya).
E cosa dicono queste filosofie?
La manifestazione appare nell'Assoluto attraverso uno spontaneo movimento o “Potere” (Shakti) in esso intrinseco. L'Assoluto non crea, egli semplicemente é. Non ha volontà né desiderio.
Tutto l'esistente é nell'Advaita (Non-dualismo) una naturale espressione dell'energia propria dell'Essere, non c'é compimento deliberato o finalità nella manifestazione. Dal punto di vista “empirico” la spiegazione che viene data dell'evento “creativo” é quella del movimento energetico, un “gradiente” che viene a formarsi in seguito all'apparizione nello specchio riflettente della mente
cosmica del concetto di spazio e di tempo. Una sorta di condizionamento o capacità della mente di proiettarsi in quel “continuum” attraverso la formazione di una serie incessante di “fotogrammi”, definiti “momenti” e “luoghi”. Potremmo dire che tale “continuum” corrisponde, ab initium, al cosiddetto Big Bang, Ed in effetti lo spazio ed il tempo sorgono contemporaneamente da quella ipotetica espansione primordiale. Ma anche affermare che la manifestazione é iniziata in un certo tempo e che si protrae nello spazio é una concessione all'esperienza vissuta dagli “esseri” che si muovono all'interno dello spazio/tempo. In verità tali “esseri” sono
anch'essi concettuali e relativi tanto quanto l'esistenza del trascorrere del tempo e dell'espandersi nello spazio. Il Vuoto, o l'Assoluto, insomma prevale sempre, tutto contiene e tutto trascende.
Nel Taoismo quel che viene definito spazio é detto “Yin” e quel che é chiamato tempo viene detto “Yang”. L'incontro, o frizione, fra queste due forze insite nel Tao (Assoluto), produce tutti gli effetti visibili (ovvero la nascita delle cosiddette “diecimila creature”).
Nel Tao non v'é intento, l'interezza del manifesto é il risultato di uno spontaneo alternarsi o rincorrersi delle energie Yin e Yang lungo una spirale infinita.
Nel Buddismo l'unica concessione che viene fatta all'esistenza di un “Dio” é nella forma di un potere di compensazione insito nella legge di causa-effetto. Egli viene perciò descritto come il dispensatore della retribuzione karmica. Ma mai assume una forma specifica come nella religione cristiana o musulmana o comunque adoranti un “Dio personale”.
Come sorge allora nelle fedi monoteiste o politeiste l'idea di un Dio “creatore e signore del cielo e della terra”? E' evidente che tale pensiero viene strutturato nella mente individuale dell'uomo come un tentativo di dare una risposta ed un senso alla sua identificazione con la forma e con il suo ritenere “vero e reale” il manifestarsi degli avvenimenti osservati nello spazio tempo. Pertanto si suppone
l'esistenza di un'entità superiore che “sovrintende” alle attività dell'universo. Questa credenza é sia una consolazione alla propria ipotetica inferiorità rispetto al nostro percepirci come presenti nel mondo sia un pensiero speculativo funzionale all'illusione separativa. In verità l'Universo é un tutto inscindibile e come in un
ologramma ogni singola particella contiene quel Tutto in modo integrale. Questo é vero anche in senso logico poiché il Tutto non può essere mai scisso, pur manifestandosi nelle differenze apparenti.
Invero anche quando riteniamo di essere una parte e separati dal Tutto non possiamo fare a meno di affermarlo attraverso la coscienza che é la radice del nostro sentire e l'unica prova del nostro esistere. Tale coscienza é caratteristica comune di ogni forma vivente ed é connaturata nella natura stessa. In fieri, o in latenza, nella
materia cosiddetta inorganica ed in evidenza nelle forme organiche, che della materia sono una trasformazione biochimica. Ed é appunto in questa “coscienza” -meglio definirla “consapevolezza”- che la manifestazione prende forma e diventa esperienza sensoriale. E tale coscienza, in quanto naturale espressione dell'Assoluto, é unica ed indivisibile, essa rappresenta la vera realtà di ogni essere. Sia esso un ipotetico Dio od un'ameba od un germe od una pietra... e di questo la fisica quantistica può darne una dimostrazione.
Auguro perciò al ricercatore Stephen William Hawking un successo nello scardinare almeno l'ignoranza più grossolana sulla vera natura dell'Essere e dell'Esistere.

Paolo D'Arpini
www.circolovegetarianocalcata.it