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lunedì 6 settembre 2010

Sette serpenti Sulle tracce di un culto ignorato.

Di seguito una mia “antica” sintesi universitaria su un buon libro di antropologia: Sette serpenti, sulle tracce di un culto ignorato (Manifestolibri, Roma, 1994) dell’antropologa Maria Silvia Codecasa, amica del compianto Angelo Quattrocchi, editore della Malatempora con cui ho pubblicato i miei primi tre libri.
Mi scuso per lo stile forse un po’ “acerbo’ della sintesi che credo mantenga comunque un buon livello di interesse.

Premessa

«Il serpente è un pittogramma, è la bandiera dell’unico grande impero pacifico della storia, che si estendeva su tutto il pianeta coltivabile, ma che era composto di stati minuscoli, con un’economia di sussistenza, come oggi a Samoa. I progressi dell’agricoltura erano assicurati dalla conoscenza di un ritmo terrestre rispecchiato dalle vicende del cielo. Non erano capaci di calcoli complessi, ma sapevano contare fino a sette, e notarono il gruppo delle Pleiadi. Il contadino aveva la luna e aveva le Pleiadi: non gli servivano i pianeti e la settimana. Il sette era sacro perché era il numero del loro calendario celeste, e quando una delle sette stelle divenne meno visibile, i contadini inventarono bellissime favole per spiegare il nuovo pittogramma: per esempio quella delle sette ninfe con ali di cigno, che scendono a nuotare sotto il chiaro di luna, una delle quali viene trattenuta da un uomo che se ne innamora. Altre volte, una delle sette è solo in ritardo, forse perché zoppica, essendo stata morsa da un serpente.»

Ho prescelto questo “frammento” per iniziare la presentazione del libro di Maria Silvia Codecasa perché ritengo rappresenti una sintesi abbastanza illuminante, seppur inevitabilmente parziale, di quanto vi si trova scritto.
Il testo Sette serpenti racconta di un viaggio ― sulle tracce di un culto ignorato — di moltissimi chilometri, dall’isola di Ceylon, risalendo lentamente attraverso l’India, toccandone in più punti sia il versante orientale che quello occidentale, raggiungendo poi il Nepal e, di lì, virando a sud-est, includendo diverse tappe in Birmania, Thailandia, Indonesia, Polinesia, Melanesia, arcipelago delle Nuove Ebridi, Isole Figi e arcipelago di Samoa.
Obiettivo di questo ambizioso percorso: una ricerca, in un ambito, come abbiamo visto, piuttosto ampio, sul “culto dei serpenti”.
In precedenza, l’autrice ― antropologa — aveva anche soggiornato diverso tempo nell’isola coreana di Cheju, sulle tracce del medesimo culto e non sono rari, nel testo, i rimandi ai dati raccolti in quella precedente fase della ricerca considerata. Non mancano, del resto, riferimenti a fenomeni similari in contesti molto diversi da quelli studiati dall’autrice a migliaia di chilometri da casa; diverse volte, difatti, viene citato il paese di Cocullo, in Abruzzo, di cui si parlerà successivamente.
Dalla ricerca della Codecasa emerge un “filo rosso” che lega luoghi tanto distanti tra loro, accomunati da favole e leggende molto simili e dalla venerazione nella stessa creatura: il serpente, per l’appunto, legato generalmente ad un numero preciso: il sette e ad altrettante figure femminili; sette sorelle. L’elemento femminile è, a questo proposito, molto importante. Il culto dei serpenti e delle sette sorelle (la rappresentazione mitologica della costellazione delle pleiadi), è difatti riconducibile al culto della dea madre, particolarmente fiorente in epoca neolitica quando, presso molte popolazioni (secondo il punto di vista di taluni studiosi, quelle stanziate nella fascia indoeuropea, comprendente l’Europa centro-meridionale, il medio oriente , il subcontinente indiano ed il sud-est asiatico) si instaurò stabilmente la forma di vita sedentaria legata alla coltivazione dei campi e all’allevamento di animali domestici; in una parola quando si consolidò il fenomeno dell’agricoltura.
A questo proposito ho pensato di citare la “mia” scheda critica del testo Tantra di André Van Lysebeth, nel quale vengono illustrati due tipi di società diverse presenti sul nostro pianeta 8500 anni or sono, epoca in cui, al crepuscolo del mesolitico, iniziò a svilupparsi l’agricoltura: a) le civiltà neolitiche sedentarie, dedite all’agricoltura e all’allevamento di maiali, pecore, capre, volatili e b) i pastori nomadi delle steppe eurasiatiche.
Van Lysebeth ritiene che a ciascuna di queste due civiltà ― differenti per struttura sociale, alimentazione, fruizione del territorio, concezione del sacro ecc… — corrispondesse un’area geografica specifica, nettamente differenziata dall’altra:

«Le civiltà neolitiche erano presenti nei territori in cui attualmente troviamo: Spagna, Francia, Belgio, Inghilterra e Irlanda, Danimarca, per quanto riguarda quello che l’autore indica come il “settore ovest”. Nel “settore est”, invece, ritroviamo altre popolazioni classificate nella medesima tipologia di “società neolitiche”, stanziate nei territori di tutto il Mediterraneo, in quelli dell’attuale Svizzera, Germania del Sud e dell’Ovest, Romania, nelle grandi pianure fertili dell’Est europeo, in Medio Oriente, fino all’India del Sud. L’insieme di queste civiltà neolitiche sono identificabili, a parere di Van Lysebeth, con i veri indoeuropei».

Parlando della loro struttura sociale insiste sul fatto che fosse egualitaria, matrilineare e con la donna ad un livello sociale elevato (dato che la “tribù prolifera grazie alla sua fecondità ed all’agricoltura che essa ha inventato).
Queste popolazioni, inoltre, erano dedite al culto della Dea-madre e “dei valori femminili: pace, natura, amore, arte, protezione della natura”.
Il ruolo della donna nel culto, difatti, è preminente. Essa è “sacerdotessa”. La sessualità è vissuta liberamente dato che “non esiste antinomia tra spiritualità e sessualità”.
Per quel che concerne l’espansione sul territorio, infine, “si effettua lentamente, per migrazione ed occupazione di nuovi territori resi coltivabili”.
A proposito dei pastori nomadi, tra i quali annovera — dedicando loro una particolare attenzione ― anche gli ariani, Van Lysebeth scrive che erano popolazioni del nord, in particolare autoctoni delle steppe dell’Eurasia, “dedite alla pastorizia, alla continua ricerca di nuovi territori e nuovi pascoli.” Le presenta inoltre come avvezze all’uso delle armi e organizzate “secondo gli schemi tipici del patriarcato”, con al vertice della “piramide” il capo del clan, poi i suoi guerrieri e con la donna sottoposta all’uomo, in una condizione liminale con quella di schiava.
Di “civiltà neolitiche”, con particolare riguardo alla loro struttura sociale pacifica ed egualitaria, parla anche il teorico libertario dell’ecologia sociale Murray Bookchin sul suo testo “L’ecologia della libertà”.
Scrive Bookchin:

«(…) la presenza tra le vestigia di un campo di caccia preistorico o di un villaggio orticolo del Neolitico di statuette femminili palesemente cariche di significati magici o religiosi, suggerisce la ragionevole probabilità che la comunità accordasse alle donne un prestigio sociale difficilmente riscontrabile nelle società patriarcali dei pastori nomadi. Ed è verosimile che una comunità di questo tipo delineasse il proprio sistema di lignaggio attraverso il nome della madre (discendenza matrilineare).
(…)
Se le dimensioni che hanno le fondamenta delle case preistoriche mettono in rilievo l’assenza di grandi abitazioni individuali e se gli ornamenti che si trovano nelle tombe non mostrano vistose ricchezze, possiamo allora ritenere che nella comunità ci fosse l’uguaglianza sociale».

A proposito della struttura sociale delle civiltà neolitiche e dei modelli culturali in esse presenti, è cruciale a parere di Bookchin il fatto che la principale fonte di approvvigionamento alimentare in dette società fosse l’agricoltura, in particolare l’orticultura, attività cui si dedicava principalmente la donna. Questo, secondo il punto di vista dell’autore americano, determinò che le comunità, non dipendendo particolarmente dalla caccia e dagli animali migratori, cominciarono a spostare il loro accento culturale “dal maschio cacciatore alla femmina raccoglitrice, dal predatore al procreatore, dai fuochi dei bivacchi al focolare domestico, dai tratti culturali associati al padre a quelli associati alla madre”.
Ed è partendo da questi presupposti che Bookchin, dopo poche righe, inferisce che «tra le rovine dei primi villaggi neolitici, riusciamo spesso a percepire l’esistenza di quella che fu una società chiaramente pacifica, disseminata di simboli che rappresentano la fecondità della vita e la generosità della natura. Quantunque vi siano tracce di armi, di palizzate e di fossati difensivi, gli orticultori primitivi sembrano avere esaltato le arti pacifiche e le occupazioni sedentarie».
Tornando ora al testo della Codecasa penso che uno degli elementi più interessanti che ne emerge sia il collegamento dei culti della Dea-madre e dei serpenti alla concezione della malattia e della morte. La madre, nel suo aspetto più terribile, diffonde la malattia (stessa cosa la causa l’uccisione del serpente). La Dea madre ed il serpente che la simboleggia detengono il segreto potere di morte e di vita: chi decide di uccidere, può decidere di salvare. Difatti…

«Nella logica primitiva è perfettamente normale che i morsi di serpente siano guariti da un serpente. Da noi il rettile ha la fama di guaritore dai tempi di Esculapio. Evidentemente ciò che colpisce l’immaginazione di chi vive in fraternità con gli animali non è “l’innata malvagità” del serpente, ma il suo segreto potere di morte. Chi decide di uccidere può decidere di salvare. Il cosiddetto primitivo non pensa affatto che tutto ciò che può far male all’uomo dovrebbe essere spazzato via dalla faccia della terra, correggendo la goffa opera di Dio. I serpenti fan parte della danza di molecole della nostra danzante galassia, e ricordo un bel canto africano che ben rappresenta la condizione dell’uomo in grembo alla natura:

Quando la notte il piede batte
Sull’ostacolo che si rizza e morde,
o padre nostro, serpente, padre della tribù,
fa che sia un ramo che si rizza e batte,
non uno dei tuoi figli dal dente aguzzo;
fa questo, padre,
o padre della tribù! Per noi, figli tuoi»

Tappa a Ceylon

Come è stato già accennato, il viaggio di Maria Silvia Codecasa inizia a Ceylon. A proposito dei cingalesi dice che “si vantano di discendere da un pugno di ariani calati dall’India settentrionale 2500 anni fa” ovvero alle stesse tribu’ di pastori nomadi che dall’Asia centrale sciamarono in Europa, Iran ed India del nord.
Oggigiorno, dunque, a Ceylon, troviamo i discendenti dei conquistatori ariani, di pelle chiara, gli “Yakka”, i discendenti degli indigeni locali, di pelle più scura ed anche una forte percentuale di Tamil, anch’essi di pelle scura, immigrati dall’India meridionale, alcuni dei quali discendono da una generazione di conquistatori precedente a quella ariana.
La Codecasa scrive che alcuni studiosi identificarono i Tamil di Ceylon con i Naga , i leggendari uomini-serpente, capaci, cioe’, di trasformarsi in serpenti o dotati di un corpo per metà anguiforme.
Al tempo della permanenza a Ceylon di Maria Silvia Codecasa (fine anni ’70, probabilmente) nell’isola si trovano ancora molti adoratori di serpenti.
Da Sri Lanka la ricercatrice raggiunge «un arcipelago di isolette piatte, un reame ancora indipendente di aironi e anitre selvatiche: questa è Nagadvipa, da Nagina-dvipa, che letteralmente significa “L’isola della dea serpente”».
Cito:

«Il tempio della dea domina l’isola, imponente, dal centro di un immenso cortile, ombreggiati da alberi maestosi, detti marnosa, o nim, e scientificamente noti col nome di Azidirachta indica.
Questi alberi sono costantemente presenti in India, là dove i serpenti sono oggetto di culto, e le foglie vengono usate come antidoto ai morsi dei serpenti .
(…)
Il tempio è spazioso, pulito e ben ventilato, di una semplicità direi francescana. Nel sancta sanctorum l’immagine di Nostra Madre dei Cobra è scolpita su un macigno che affiora da sottoterra; se ne vede solo il cappuccio e parte del tronco.
(…)
Assistiamo ad una cerimonia propiziatoria per la salute di un bambino. Sacerdote e fedeli stanno seduti per terra, accanto a ciotole con fiori e acqua pura e curcuma: si brucia incenso e si versa acqua benedetta. Il rito può sembrare esoterico, ma la cantilena del prete è assolutamente familiare, come i volti dei fedeli, che manifestano qualche apprensione all’inizio ma poi si rilassano, sicché quando l’arciprete mi dice: forse tu hai delle preoccupazioni, ma adesso sei venuta a casa, sei nella casa della Grande Madre, io chino la testa e accetto la benedizione, anche se mi è stato insegnato che il Serpente è il Nemico».

In questo stesso tempio è presente un serpente vivo, che qualche volta si lascia persino vedere. A Nainativu, in molte case, si allevano serpenti e la stessa cosa accadeva a Cheju , l’isola coreana ove la Codecasa ha condotto la prima parte della sua ricerca. A Nainativu nessuno uccide i serpenti perché questi, generalmente, non attaccano l’uomo e nel caso si dovesse verificare un’aggressione, “basterebbe recarsi al tempio per essere immediatamente guariti”.
Un medico locale, in un colloquio con l’antropologa, sostiene che “i morsi di serpente non sono pericolosi per chi ha fede” e che lui stesso, qualche giorno prima, aveva salvato un bambino morso da un cobra “semplicemente pregando Shiva”.
Di ritorno a Ceylon, avventurandosi sulla costa di nord-est, Maria Silvia Codecasa si ritrova nei pressi di un villaggio di pescatori, Vallipuram. Lì visita un tempio di Vishnu, ubicato un po’ discosto dal centro abitato, appartato “tra pochi, grandi alberi”.

«Come conchiglie vuote lasciate indietro da antiche maree, reliquie di riti dimenticati sono sparse attorno al santuario principale. Sono pietre scolpite, appoggiate al muro, con le immagini di un cobra col cappuccio spiegato, o di due serpi avvinghiate l’una all’altra […]. Sono le offerte delle donne senza prole, la cui sterilità viene generalmente ascritta, in India come in Corea, a un’offesa fatta ai serpenti in questa vita o in una precedente, e si chiamano infatti “stele espiatorie”.
C’è anche una capanna sacra alle sette Kannimal. Il tetto è di foglie di palma, il pavimento è la sabbia. All’interno si intravedono un tridente di ferro e un candelabro a sette braccia, annerito dal fumo dell’incenso. Per terra un’offerta di fiori gialli. Sul fondo un telone dipinto con le immagini sbiadite di sette figure femminili».

Le sette figure femminili cui si è ora accennato sono lì conosciute come “Sapta Matrikas” e sono considerate come “sette vergini”. Il sacerdote di Vishnu, officiante nel tempio rispettivo dà alla Codecasa una lista completa degli autentici nomi sancriti delle “Sapta Matrikas”: Bramani, Mahesvari, Kaumari, Vaishnavi, Varahi, Indiani, Chamundi e trattasi di “vergini mogli degli dei” (Brama, Vishnu, Indra, Kumara, che poi sarebbe Skanda, figlio di Shiva). Varahi, poi, è la moglie di Vishnu incarnato sotto forma di cinghiale, e Chamundi è Kali.
Riemerge la questione della sostanziale “innocuità” dei morsi di serpenti in un contesto dove questi vengono fatti oggetto di culto. Affiorano parallelismi con Cheju e con Cocullo:

«A Cheju nemmeno i bambini han paura di essere morsi, sebbene ci siano serpenti dappertutto. Ma non mordono!…E in Italia, c’è una vallata, a 70 chilometri da Roma dove “nessuno può morire” di morsi di serpenti o cani rabbiosi. (Nel villaggio di Cocullo che domina la valle, la chiesa è dedicata a S. Domenico, -che esercita la stessa funzione di Vishnu qui- e in chiesa, nel giorno del santo, la gente va a prendersi secchiate di un terriccio speciale, detto “terra di S. Domenico”, che guarisce da qualsiasi morso e accresce la produttività dei campi».

Andando avanti nella narrazione, la Codecasa dirà poi che S. Domenico, a Cocullo, “ha ricoperto quel che era rimasto del culto della dea serpente Angizia.”
Tornando ora alle “Sapta Matrikas”, sembra proprio che a Ceylon non esistano solo loro nelle vesti di sette divinità femminili; c’è anche

«Una dea Sette-Pattini, che è rinata sette volte, e le Sette Fanciulle, e finalmente ci sono sette famose sorelle che si misero a capo dei guerriglieri che tentavano di scacciare gli olandesi, furono sconfitte, e si avvelenarono per non cadere nelle mani dei nemici. Sono diventate eroine nazionali, con un culto in loro onore. E alla fine è davvero difficile dire se un santuario è dedicato alle mogli dei sette maggiori dei indù, a una dea della fertilità che si è incarnata sette volte, a sette divinità delle sorgenti che spesso sono rappresentate con code di serpente e chiamate Nagakanni, oppure alle sette principesse che combatterono gli olandesi».

Tappe in India

Affrontando il discorso in linea più generale l’autrice del testo qui considerato parla di un grande festival dei serpenti, il Nagapanchami, che ha luogo a fine Luglio, cui prende parte circa la metà della popolazione indiana.

«Già molte settimane prima del Nagapanchami, al mercato di Bombay, a Shukla-ji Street, si cominciano a vendere migliaia di serpenti vivi, che i devoti metteranno in libertà nel giorno santo. Quel giorno ci si astiene da qualsiasi cibo che non sia bollito. Alla mattina, si disegna un complicato intreccio di sette o nove serpenti davanti alla soglia, a cui si offrono fiori. Al pomeriggio, molti vanno in pellegrinaggio ai termitai, dimora tradizionale dei cobra. Alla sera, la famiglia osserva una specie di veglia attorno a una lampada, “per tenere svegli i serpenti”, si dice. E il bambino più grande recita una storia di serpenti».

Una ipotesi interessante che emerge riguarda la festività del 15 Agosto (Assunzione della vergine Maria), “colei che calpestò finalmente la testa del serpente che aveva corrotto Eva”. La Codecasa azzarda che la data “può essere stata scelta per ricoprire una più antica festività dei serpenti”, un culto probabilmente partito dai coltivatori di cereali per cui poteva esser stato del tutto naturale “connettere un rettile che vive in cunicoli sotterranei, con i granelli che l’uomo aveva seminato in buche scavate con un bastone nella terra. E il serpente non mangia i granelli, ma si nutre dei topi che li mangiano, e quindi protegge il grano ed è un amico.”
Giunta nei pressi di Madras, sulla costa sud-orientale del sub-continente, l’antropologa si dirige verso Tiruverkkadu, dove si trova un tempio famoso di Kali o, per usare l’espressione locale, a Karu Mari (ma sempre di Kali, in sostanza, si tratta)

«Al centro di un cortile recintato da un alto muro i devoti si purificano lavandosi a una fontanella prima di entrare nel tempio, ombreggiato da un maestoso albero Pipal. (…) E’ l’albero (detto bodhi a Ceylon) sotto cui Buddha raggiunse l’illuminazione[…] e sotto l’albero conto sette pietre in fila con serpenti scolpiti sopra. Saranno, o no, le sette Kannimal?
Surya [la sua guida del momento] annuisce, raggiante: per lui esse rappresentano la divinità suprema e intende completare il pellegrinaggio settimanale con una visita al tempio di Mangadu, dedicato escluivamente alle sette Kannimal.
(…)
Ma ecco a destra un’altra porta, aperta su uno stanzone col soffitto bucato, per poter lasciar crescere l’albero sacro. L’albero è morto; ne è rimasto il troncone in mezzo a un mucchio di terra, tra quattro pietre con i soliti serpenti scolpiti. Questo piccolo santuario non è abbandonato: in un angolo del mucchio si vede un buco, e attorno i resti recenti di uova rotte.
“Qui vive un serpente”, dice Surya, “il latte e le uova sono le offerte alla dea che si chiama Naga Thanmal Ambal, cioè la onorevole madre”».

Sarebbe lungo, a questo punto, approfondire i legami tra Kali e la onorevole madre, dato che intento di questa scheda è fornire una panoramica generale del culto considerato. Ritengo invece importante soffermarmi un momento sulla ricorrenza del numero sette (sette Kannimal, Sapta Matrikas, sette fanciulle…) ed il concetto singolare di dea (nelle forme de “la onorevole madre”, “Nostra Madre dei Cobra” ed altre denominazioni che via via si riscontrano sul testo in esame). È importante comprendere subito, infatti, che il culto dei serpenti, legato a quello della dea madre nella sua pluralità di espressioni, presenta spessissimo questa corrispondenza: una dea in sette persone. Penso che per comprenderlo meglio sia bene considerarlo alla luce di quanto ci hanno insegnato in merito al concetto di Trinità cristiana, dove Dio è parallelamente uno e trino, uno in tre persone: Padre, Figlio, Spirito Santo.

«Mangadu è un santuario importante (…) Surya spiega che il tempio è dedicato a Kammakschi-mal, la dea dagli-occhi-pieni-di-amore.
(…)
La cupola è ornata da tre fregi in altorilievo. Al livello inferiore noto sette statue femminili, le quali sono tutte Kamakshi, spiega Surya».

Tappa successiva: Bangalore, collocata quasi esattamente nel centro della sezione meridionale del sub-continente. Lì…

«Sopravvive il culto delle sette sorelle, nel loro aspetto di distributrici di malattie, con una Maramma che presiede al colera, Kokkalamma per la tosse, Udalamma per il collo gonfio, e Sukhajamma per morbillo e vaiolo. E in onore delle sette deee si usava camminare sulle bragi».

La visita a Bangalore, sulle tracce del culto dei serpenti, viene così raccontata:

«Alla fermata dell’autobus, all’ombra di un sacro albero di pipal, sul marciapiede, mi vedo davanti le tre pietre scolpite di cui avevo letto la descrizione in una vecchia rivista […]
(…)
La pietra a sinistra, con la figura di un cobra a sette teste, rappresenta Subramania. Sulla pietra centrale la donna che al posto delle gambe ha una coda di serpente, si chiama Mudamma. Sulla terza pietra, due serpenti stanno attorcigliati attorno a un linga. A questa divinità viene reso omaggio soprattutto durante la festa della dea Gauri, soprattutto da parte delle donne.
(…)
Ma Gauri (che in sancrito vuol dire forse “la dorata”, e forse “la vacca”) è solo un altro aspetto di Kali l’oscura, ovvero Minakshi o Kamakshi o Pattini: la Grande Madre»
Dopo Bangalore La Codecasa decide di non trascurare il Kerala e fa sosta a Mannarsala, dove, all’interno di un tempio, compare una figura cruciale; la sacerdotessa, a chiudere completamente il cerchio di un culto legato alla dea-madre nelle sue molteplici espressioni, officiato da donne.

«Arriviamo a un cancello, al centro di un muro di mattoni, decorato con immagini di serpenti: al centro del cortile vastissimo, c’è una casetta bassa, rettangolare, dove alloggia la sacerdotessa e lì presso un giovanotto canta accompagnandosi sul violino.
(…)
Il luogo di culto originale, però, era il boschetto sacro o kavuu, che oggi si trova fuori del cancello. Si distinguono due pietre ritte, per il re dei serpenti e per sua moglia (Nagaraja e Nagayekshi): ma nel secolo scorso c’erano centinaia di pietre e centinaia di serpenti vivi, i servi del re dei serpenti.
[La sacerdotessa] ha 85 anni, e la sua santità è tale che nessuno può toccarla. Si era regolarmente sposata all’età di 12 anni, ma quando la sacerdotessa precedente, sul letto di morte, l’ha designata a succederle, ha lasciato la famiglia. È sempre stato così: la donna prescelta deve servire il tempio. Si sa già che alla morte di questa, la sua sorella più giovane, che oggi ha 55 anni, a sua volta lascerà marito e figli per essere sacerdotessa. C’è un tempo per essere madre e un tempo per servire Iddio».

Stando a quanto riferito dai locali, la sacerdotessa ha poteri di guaritrice, in particolare può guarire quei mali che costituiscono, tradizionalmente una punizione per chi ha violato la sacralità dei rettili oggetto di culto.

«La lebbra, assieme alla cecità e alla sterilità, è una delle punizioni usuali inflitte a coloro che hanno offeso i serpenti, in India come in Corea».

Giunta nei pressi di Mangalore,sulla costa sud-occidentale, la Codecasa visita un altro tempio dedicato al culto dei serpenti, addirittura meta di pellegrinaggi, il quale, tuttavia “sta per subire una ricostruzione che lo renderà più simile ai templi indù ortodossi” e che oggi, probabilmente, sarà già induizzato (dato che non dobbiamo dimenticare che questo viaggio antropologico risale alla fine degli anni ’70).
Al momento della visita dell’antropologa, però, l’antica struttura è ancora ben visibile:

«due cortili concentrici, con un lato aperto sul fiume. Là i pellegrini si purificano e poi si riposano sotto i portici, dove viene servito un pranzo abbondante su foglie di palma, gratuito. Come a Mannarsala, in mezzo al cortile c’è solo un’insignificante casetta rettangolare. Il culto infatti si svolge all’aperto, e nel muro del porticato si aprono le tane dei serpenti vivi, ospiti del tempio».

Procedendo nella ricerca, accanto alla dea in sette persone, emerge un altro personaggio; il fratello zoppo delle sette sorelle, di nome Beru o Ketlo. Ad esempio, in Rajasthan, la Codecasa si imbatte in un membro della tribù sacra dei Charan, i quali, a detta dell’informatore del momento della nostra antropologa…

«Sono bardi regali, e genealogisti di professione, o astrologi. Facilmente, sia gli uomini che le donne vengono posseduti dalla divinità, che in essi si incarna.
(…)
Le divinità dei Charan sono Mata-ji, ossia la Madre, e le Sette Sorelle, le Bayan-sa. Bayan significa fanciulle, e –sa è un suffisso di rispetto ma hanno molti altri nomi naturalmente.
[Il fratello] negli amuleti è raffigurato alla loro destra».

Anche in Rajasthan le officianti del culto sono donne, dette bhopi (incarnata). Molte storie riguardano Beru e non posso permettermi di dilungarmi troppo su questa figura. L’unica cosa che ritengo essenziale dire a proposito del “fratello zoppo” riguarda il fatto che, in molti casi, questi è identificato con una stella della costellazione delle Pleiadi che, 2000 anni prima di Cristo circa, è divenuta quasi invisibile, stimolando il sorgere di innumerevoli leggende ascrivibili ad una sorta di mitologia trasversale, presente tanto in Mesopotamia quanto in Egitto, nel bacino del Mediterraneo, In India e via di questo passo.

Tappe in Nepal

«A Kathmandu […] c’è sempre una bambina chiamata kumari, “la vergine”, in cui la dea si incarna finché alla piccola non spunta il secondo dente della dentizione adulta: ripetendo, non il dolore ma l’innocenza. La kumari è alloggiata in un palazzo insolitamente ben tenuto, con porte e finestre scolpite, nel centro della città, a pochi metri dalla piramide a gradini dove i figli dell’occidente siedono in vari stadi di sonnolenza. La porta del palazzo è sempre aperta, benché la kumari sia la sacra protettrice del Nepal: ogni anno in una cerimonia pubblica, la kumari conferma la legittimità di un re, ponendo un pezzo di curcuma sulla sua fronte. Chiunque può entrare nel cortile, e con poche rupie si può indurre un bambino cencioso a far affacciare alla finestra la kumari.
Sembra una bambinetta come le altre. Io guardo in su, lei guarda in giù. Occhini grandi nel viso pallido, perché vive sempre confinata nelle stanze al piano superiore. E subito sparisce.
Quando spunta il secondo dente, i sacerdoti vanno nella campagna a cercare un’altra kumari. La dea si incarna sempre in una bambinetta della stessa bassissima casta».
Sembra che in Nepal i luoghi di culto più famosi siano dedicati alla madre. Nelle Terai, poi, le terre basse del Nepal, “le sette sorelle vengono adorate il settimo giorno del festival di dieci giorni e nove notti dedicato a Durga. Il settimo giorno del festival di Durga, dunque, vengono adorate le sette stelle: le Pleiadi.”

Una fiaba birmana

«C’erano una volta sette fate, che usavano bagnarsi in un laghetto in mezzo ai boschi. Un principe le vide, e si innamorò di una di loro. esse avevano lasciato i loro indumenti e le ali sulla riva, prima di immergersi, e il principe si impadronì del corredo della sorella più giovane, e attese. Quando le fanciulle furono stanche di nuotare, volarono via, ma la sorella più giovane restò sulla riva, battendo i denti e in lacrime. Allora il principe uscì dai cespugli e le diede le vesti, ma non le ali, perché voleva sposarla. La fanciulla accettò il suo amore, ma il padre del principe non amava la nuora, e non appena il principe si allontanò dalla capitale per battersi in guerra, progettò di assassinarla, però la suocera ne ebbe pena, le restituì le ali e la fanciulla rivolò in cielo. Il principe ritornò e si mise in cerca della moglie. Un monaco gli insegnò a superare gli ostacoli che avrebbe incontrato: due montagne che ondeggiavano l’una contro l’altra, una barriera di fuoco che si spengeva solo per dieci minuti al giorno, e un’orda di giganti. E finalmente i due innamorati furono di nuovo riuniti».

«Questa stessa storia a Ceylon aveva Sita come protagonista. È possibile che la familiare favola della Nereide che sposa un mortale sia un mito deteriorato, e precisamente un mito che cerca di spiegare, in modo originale e poetico, la riduzione delle Pleiadi da sette a sei. E al posto del fratello zoppo, avremmo uno sposo innamorato. Antichissimo, certamente è il motivo dell’indumento magico: senza di esso la fanciulla del cielo perde il suo potere soprannaturale, e diventa una mortale qualsiasi. E le Nereidi, lo dice l’etimologia [Néo in greco e in latino vuol dire “filare”] erano esperte tessitrici, e quindi erano maghe, dato che agli uomini del nelotico, i primi indumenti tessuti apparivano un’opera di stregoneria».

E quest’ultimo punto trovo che sia particolarmente interessante perché costituisce un altro tassello nell’illustrazione delle “società neolitiche” ove la donna, ben diversamente che nel posteriore patriarcato,avevano un ruolo sociale paritario con quello del maschio e, non solo, venivano fatte oggetto di profonda reverenza dato l’alone magico di cui erano rivestiti sia il parto, che l’orticoltura, che, come abbiamo appena visto, al tessitura.
Procedendo ulteriormente nella ricerca, sembra che il nucleo della favola delle sette fanciulle dal cielo, presente, come abbiamo visto sino ad ora anche in Birmania e a Ceylon, sia stato elaborato in Malesia, “nella giungla umida dell’interno”, ove le protagoniste assumerebbero l’aspetto “più realistico che altrove, di uccelli acquatici.”
Una storia ugualmente simile alla “fiaba birmana” la troviamo anche a Bali. Tuttavia, come la Codecasa stessa scrive, “Man in mano che mi allontanavo dall’India, il legame tra le sette sorelle e la grande madre si faceva più vago” ed il lettore non trova più, nel corso della narrazione, accenni ad altri templi. Ora ci si sta muovendo semplicemente sul terreno delle credenze.
Interessante, comunque, l’identificazione delle sette ninfe di Bali con il basilico, l’erba dei re. Scrive la Codecasa:

«[A Bali] le sette fanciulle prese nel loro insieme sono una pianta: il che è nelle migliori tradizioni delle Dee Madri».

Serpenti nel Pacifico

«Si narra a Samoa che Sina, una fanciulla di Toga, trovò un’anguilla piccolissima, e la allevò in una scodella, finché questa non crebbe abbastanza da poter vivere in una polla. A Sina piaceva bagnarsi nella polla e giocare con l’anguilla, finché questa non la punse con la coda. Sina ebbe paura e fuggì a Samoa, ma l’anguilla la seguì. I familiari di Sina decisero di uccidere l’anguilla, e questa comprese che la sua ultima ora era venuta e chiese a Sina di tagliarle la testa e di seppellirla. E dalla testa dell’anguilla nacque la prima palma da cocco».

Nell’arcipelago delle Fiji, malgrado l’estesissima cristianizzazione, sopravvive ancora il culto dei serpenti. In particolare in una località, Kandavu:

«A Kandavu, ancora nel 1944, come si legge in un articolo del reverendo Tippet, la teologia del serpente primitivo si manifestava in un rito, abituale in caso di guerre ed epidemie, officiato da sacerdoti che appartenevano ad una casta elevata, come quella dei capi-tribù. Scopo del rito era di accrescere il potere spirituale dei capi.
La cerimonia si svolgeva in un tempio all’aperto, un’area circolare cintata da muri di pietra. L’officiante era assistito da tre uomini vestiti solo di foglie di palma. Egli cantava una formula magica, di pochi suoni elementari, che veniva completata dai tre assistenti: il serpente ospite del tempio riconosceva le vibrazioni, che precedevano l’offerta giornaliera del cibo, usciva dal nido e andava ad avvolgersi attorno al braccio destro del sacerdote. Anche il gesto successivo doveva essergli familiare: il sacerdote baciava il serpente. Ma era un bacio di Giuda. Infatti, dopo il bacio, il sacerdote mordeva il serpente dietro la testa, a fondo, fino ad ucciderlo. Un modo diverso di uccidere il “santuario del dio” sarebbe stato blasfemo. Bisogna apprezzare lo storico punto di vista di questi “primitivi”: un sacrificio richiede l’assenza di intermediari e la piena consapevolezza, da parte del sacrificatore, di quello che è un assassinio. Il sangue della vittima deve sporcare la bocca e le mani del prete, deve incrostarvisi sopra: infatti solo più tardi all’officiante era concesso di lavarsi.
Seguiva la comunione. Il serpente sacrificato veniva portato alla casa del capo che aveva richiesto la benedizione del dio, e fatto bollire in una pentola, alla presenza dei capi e del sacerdote. Quindi tutto il contenuto della pentola doveva venir consumato (brodo, pelle, squame, e ossa incluse) per evitare profanazioni.
(…)
C’è […] da domandarsi se il rito non sia uno stravolgimento della comunione cristiana, anziché una sopravvivenza di un costume neolitico»

Per finire:

«C’è un leggendario enorme serpente, che vive sotto la terra e sotto il mare del golfo di Papua. Con la scoperta del petrolio il mito è stato aggiornato, e si dice che, se il serpente venisse ucciso, il petrolio scorrerebbe a fiumi.
Dunque anche in Nuova Guinea, come in Europa e in India, i serpenti sono i custodi dei tesori della terra, che si tratti di rubini o di petrolio. La favola esprime la saggezza antica in un codice comprensibile: chi profana il suolo (sottraendo beni comuni a tutti gli abitanti del pianeta), disturba i mostri, e questo è un messaggio troppo importante per essere formulato in un gergo esoterico».

Emerge a questo punto abbastanza chiaramente la corrispondenza del mito del serpente con quello archetipico del drago (da cui forse il primo deriva), anch’esso, difatti, come del resto anche Tolkien ci ricorda, “in una fase successiva, già in qualche modo di contaminazione e di decadenza diventerà il custode di un particolare tesoro”.